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Marchionne, il manager internazionale nel ritratto di Paolo Mazzanti

Di Paolo Mazzanti
Sergio Marchionne

“Marchionne? Un manager di origini abruzzesi, cresciuto in Canada, che abita in Svizzera e fabbrica automobili in Brasile e Polonia”. Così, senza riferimenti all’Italia, veniva definito l’amministratore delegato della Fiat- Chrysler nel mondo del business americano quando nel 2009 entrò nel terzo gruppo automobilistico statunitense praticamente fallito. Così come praticamente fallita era Fiat quando Marchionne ne divenne amministratore delegato il primo giugno 2004. Li ricordiamo bene quei mesi: il pellegrinaggio dei dirigenti di Torino con un piede nel baratro dall’allora premier Berlusconi ad Arcore in cerca di aiuto; poi la morte improvvisa di Umberto Agnelli e il conflitto tra l’ad Giuseppe Morchio, che pretendeva di diventare anche presidente (e forse azionista), e la famiglia Agnelli; le dimissioni dello stesso Morchio e la scelta di Montezemolo come presidente e dello sconosciuto Marchionne come ad. In dieci anni lo sconosciuto Marchionne è diventato un protagonista mondiale dell’industria; da due fallimenti ha costruito il sesto o settimo gruppo automobilistico mondiale in grado di ricominciare a competere; ha agitato come pochi lo stagno politico-sociale italiano.

Come ha fatto? Ha utilizzato con straordinario tempismo tutte le opportunità che gli si sono presentate, dalla trattativa per sciogliere il contratto con General motors, che ha fruttato a Fiat 1,5 miliardi, all’acquisizione del primo 20% di Chrysler in cambio delle tecnologie ecosostenibili Fiat, fino alla trattativa con Veba per l’acquisizione dell’ultimo 41% di Chrysler per una somma che è appena un decimo di ciò che Daimler aveva speso nel 1998 per acquisirla senza riuscire a integrarla. Ha messo al servizio del progetto le sue doti di negoziatore e la sua esperienza finanziaria e contabile, maturata dalla Deloitte alla Sgs, la società svizzera degli Agnelli leader mondiale dei servizi di certificazione che aveva risanato in due anni. Ha scosso la palude italiana e anche americana con i suoi atteggiamenti anticonformisti, frutto forse dei suoi studi di filosofia, dall’eterno maglioncino blu alla schiettezza al limite della brutalità, come quando è uscito da Confindustria, quando ha detto papale papale in televisione che senza l’Italia la Fiat guadagnerebbe di più o quando ha detto che non voleva più aiuti pubblici, a partire dalla rottamazione, che è come una droga.

La sua immagine pubblica ha subìto in questi anni oscillazioni proporzionali alla sua schiettezza. All’inizio è stato salutato da molti esponenti sindacali e della sinistra (da Bertinotti a Renzi) come un innovatore quasi “socialista”. Poi, con la chiusura di Termini  Imerese e il braccio di ferro sindacal-giudiziario con la Fiom, è diventato un bieco capitalista nemico del popolo. In realtà, lui è sempre rimasto Marchionne: un manager frugale e totalmente antiretorico (per anni ha dormito quasi solo in aereo e al quartier generale Chrysler di Auburn Hill mangia alla mensa degli impiegati) che applica con rigore calvinista i principi liberali di mercato, aperto alla collaborazione con i sindacati, ma a condizione di non deflettere sulle regole, attento ma non succube degli analisti finanziari che anche di recente hanno sottolineato la fragilità patrimoniale di Fiat-Chrysler. Lui ha risposto serafico: “Se avessi tenuto conto dei giudizi degli analisti sarei morto d’infarto mille volte”. La dimensione mondiale del suo business gli consente un sovrano distacco dai governi: è pronto a utilizzarne le agevolazioni, come ha fatto con il prestito da 8 miliardi di dollari concesso da Obama a Chrysler (e restituito in anticipo con gli interessi) o con lo stabilimento in Serbia, ma senza compromessi, perché è convinto che i profitti devono derivare dai clienti, non dai sussidi pubblici. Da qui le tensioni con il nostro Paese.

Per Marchionne l’Italia può ambire a un ruolo di riguardo nell’universo Fiat dovuto ai legami storici, ma deve meritarselo. Ha sempre detto che dal punto di vista puramente industriale l’investimento a Pomigliano per costruirvi la nuova Panda era totalmente irrazionale. Ha salvato la Bertone di Grugliasco, ma ha chiesto ai suoi mille dipendenti di impegnarsi a fondo nella costruzione delle Maserati. Oggi è pronto a concentrare in Italia la produzione delle nuove Alfa Romeo per il mercato mondiale, più nuovi modelli Jeep e Maserati, fino a richiamare al lavoro tutti gli operai dalla cassa integrazione, ma chiede flessibilità negli stabilimenti. Nella faticosa e lentissima modernizzazione italiana il multinazionale Marchionne gioca un po’ il ruolo del professore burbero. Se sarà un burbero benefico dipenderà anche da noi.

(Articolo pubblicato sul numero 89 della rivista Formiche – febbraio 2014)



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