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Perché è ora di cambiare registro sulla questione delle province

Regionalismo, province digitale, italiani, riforma costituzionale

Il decreto detto “mille proroghe” quest’ anno si presenta in estate e non, come d’abitudine da circa 15 anni, alla fine dell’anno. Tra i vari argomenti oggetto di rinvio quest’anno troveremo un ulteriore rinvio della scadenza dei consiglieri provinciali. Su questo, tre considerazioni si impongono.

La prima considerazione è di tipo generale, per nulla originale ma importante ribadire: la necessità di fare proroghe evidenzia una incapacità istituzionale di gestire il tempo. Bisognerà fare mente locale e cercare di porvi rimedio. Il rispetto degli impegni presi fa parte dei pilastri su cui si basa la credibilità degli individui e delle istituzioni. Il nostro “mille proroghe” contribuisce non poco a renderci poco credibili sopra le Alpi e sui mercati.

La seconda e la terza considerazione riguardano il fenomeno “province”. La seconda considerazione appunto è il fallimento del progetto di riforma costituzionale, bocciato dal referendum dello scorso dicembre, che ha fatto crollare il castello su cui era stato basato un progetto mal congegnato, progetto che iniziava dal tetto (l’abolizione per legge di competenze e finanziamenti alle province) anziché dalle fondamenta (l’abolizione delle province nel testo della Costituzione). Ora ci troviamo in mezzo al guado, abbiamo tagliato i ponti dietro di noi (le competenze e il personale delle province sono stati trasferiti più o meno alla rinfusa ad altri enti) e non possiamo più andare verso la riva che ci eravamo proposti di raggiungere e cioè l’abolizione delle province. La situazione è ulteriormente complicata dal fatto che, nella normativa di transizione, abbiamo introdotto lo strumento della Città metropolitana. Là dove questo strumento è stato introdotto non rappresenta un livello di governo ma un semplice meccanismo di coordinamento dei comuni che afferiscono ad una singola conurbazione. In Italia lo strumento potrebbe essere applicato, ad esempio, alla conurbazione Pisa-Livorno o a quella formata da Firenze e dai comuni della sua cinta (Sesto Fiorentino, Scandicci, Bagno a Ripoli, Fiesole, Campi Bisenzio, Signa). Nel caso di Firenze, invece, la Città metropolitana va da Empoli alla valle del Mugello. C’è tanta confusione sotto il cielo.

La terza considerazione riguarda il motivo per cui si vorrebbero abolire le province. In effetti, hanno molti meno compiti dei Comuni e ci si è spesso domandati se valesse la pena tenerle in piedi, con i loro costi fissi (consiglio, giunta, presidente, segretario, e uffici vari). Nell’estate del 2011, la famosa lettera di “messa in mora” dell’Italia inviata da Trichet e Draghi all’Italia elencava l’abolizione delle province tra i compiti da realizzare. Nel corso di questi anni se c’è una cosa di tutta questa vicenda che risulta oramai chiara è che l’abolizione delle province non comporterebbe nessun risparmio. Il fatto è che, non solo non programmiamo i nostri interventi di ingegneria istituzionale, ma non facciamo nemmeno l’analisi dei bisogni.

Tutto il nostro livello di governo intermedio tra Regione e Provincia ha bisogno di essere ridisegnato. Le province sono nate come strumento di controllo da parte del governo centrale sul territorio e le autonomie locali e, originariamente, si identificavano nelle prefetture. Durante il ventennio, in Italia, e l’occupazione nazista, in Francia, i prefetti si sono mostrati troppo collaborativi con il regime. Alla fine della Seconda guerra mondiale in Italia e in Francia le prefetture sono state affiancate da un organo di governo elettivo. Significativo il fatto che tra le prime competenze trasferite, in Italia, dalle prefetture alle province vi sia stata quella sugli ospedali psichiatrici, spesso usati durante il ventennio per reprimere il dissenso.

Nel frattempo i compiti delle comunità locali sono venuti crescendo a dismisura, soprattutto nel settore dei servizi (abitazioni, servizi sociali, trasporti ecc.). La maggior parte dei comuni si sono dimostrati troppo piccoli per far fronte a questi nuovi compiti (si pensi che il 78% dei comuni italiani ha meno di 5mila abitanti e il 75% meno di 3mila abitanti). Questi comuni hanno dato luogo, per far fronte a questi compiti per cui sono inadeguati, a una miriade di enti intermedi (Cottarelli è arrivato a censirne più di 10mila). In effetti l’ambito territoriale della provincia (nata come prefettura e, quindi, con compiti di controllo e non di gestione) era troppo vasto per gestire i nuovi servizi locali, e i comuni erano troppo piccoli. Ci sarebbe stato bisogno di scindere la prefettura dalla provincia e di forzare i comuni troppo piccoli a conferire i compiti di natura industriale (trasporti, rifiuti, abitazioni ecc.) ad un ente superiore. Invece, mentre da una parte si abolivano le province, da un’altra parte si creavano (legge 210 del 2010) incentivi per i piccoli comuni ad associarsi o a fondersi. L’obiettivo della legge 210/2010 è di portare la soglia dei piccoli comuni a 10mila abitanti, una soglia comunque largamente insufficiente.

In un workshop organizzato da Formiche e dalla Scuola di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” dell’Università di Firenze è emerso che in Francia (dove i comuni sono molto più piccoli di quelli italiani, laddove la Francia a 36mila comuni mentre in Italia ne abbiamo circa 8mila) lo scorso 5 dicembre sono emerse due cose che dovrebbero farci pensare: in Francia, dove a partire dal 2011 i piccoli comuni sono costretti a conferire la gestione dei loro servizi industriali alle comunità urbane, si è passati rapidamente da circa 10mila enti derivati a meno di mille e in Germania, dove la scissione tra prefettura e provincia risale all’800, gli enti partecipati sono meno di un migliaio.

Mille proroghe è un sintomo. Il male è l’incapacità di affrontare i problemi di ingegneria istituzionale con sistematicità e professionalità e non con lo spirito dei nostri tifosi di calcio, tutti in grado di formare la migliore squadra nazionale. Il problema delle province, anche se meno visibile ha un impatto non certo minore dell’Ilva e della Tav.


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