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Ecco cosa dice il report di Ispi sul viaggio americano di Giuseppe Conte

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Stare con gli Stati Uniti o con Trump? Questo è solo uno dei tanti dubbi che accompagneranno il presidente del Consiglio Giuseppe Conte nella sua traversata atlantica alla volta di Washington, prima visita ufficiale del governo gialloverde allo Studio Ovale. Un’opzione non esclude l’altra, è chiaro. Eppure in questo momento la distinzione assume un preciso significato politico. L’amministrazione statunitense parla a più voci, è divisa al suo interno, vive un’interminabile scontro fra la comunità di intelligence, il presidente, i vertici militari e il potere giudiziario. Ribadire la propria fedeltà all’Alleanza atlantica, al vincolo di amicizia che da settant’anni lega Stati Uniti e Italia non significa dover avallare senza batter ciglio la linea Trump, né rinunciare a far valere il proprio interesse nazionale quando le richieste di Washington sembrano irricevibili. Così la visita del premier fiorentino racchiude in sé due aspetti altrettanto importanti. È un gesto formale, di routine, un viaggio che tutto sommato è dovuto a chi prende in mano le redini di Palazzo Chigi. E al tempo stesso è un’occasione di grande valore strategico, che giunge in un momento storico di grandi mutamenti del quadro internazionale. Per questo motivo l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi), nel segno della migliore tradizione dei grandi think tank americani, da sempre linfa per la politica estera del Paese, ha pubblicato un report in vista del bilaterale: una road map (non richiesta, ma utilissima) con cui Conte potrà valorizzare al massimo ogni minuto trascorso col Tycoon e il suo team negoziale.

ITALIA-USA: AMICI NON SEMPRE D’ACCORDO

L’incipit è d’eccezione, con un lungo monito dell’editorialista del Corriere della Sera Sergio Romano: “il rapporto dell’Italia con gli Stati Uniti ha sempre obbedito a una vecchia regola della politica internazionale: era cordiale quando i due paesi avevano interessi comuni e sapevano di potere meglio raggiungere, insieme, lo stesso obiettivo; era meno cordiale quando avevano obiettivi diversi, se non addirittura contrastanti. Oggi, dopo la elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, gli interessi comuni sono sempre meno numerosi”. Ripercorrendo a ritroso la storia dei rapporti con l’alleato statunitense, Romano riporta l’analisi sul piano della real politik. Fanfani, Andreotti, Craxi sono stati buoni amici di Washington, ma hanno saputo dire dei no in più di un’occasione. La Russia è sempre stato il banco di prova più duro, in un Paese con il più grande partito comunista d’Europa. L’Italia ha sempre cercato di fare da ponte fra la Casa Bianca e il Cremlino, sfruttando una posizione geografica nel Mediterraneo senza eguali. L’incontro fra George Bush e Vladimir Putin a Pratica tessuto sapientemente da Silvio Berlusconi (e con lui Franco Frattini) aveva fatto ben sperare, “ma quel patto è stato implicitamente smentito quando la Alleanza atlantica ha aperto le sue porte a paesi che erano stati costretti a fare parte dell’area d’influenza sovietica per più di cinquanta anni e attribuivano alla Nato una implicita funzione anti-russa”. Oggi il governo italiano e l’amministrazione Usa remano in direzione opposta su tanti dossier: Nato, fedeltà all’Ue, Iran, guerra dei dazi. Si deve allora convenire che “il problema non è quello della maggiore o minore dose di antiamericanismo nella politica estera italiana. Al di là delle divergenze caratteriali, il vero problema dei rapporti italo-americani e la crescente divergenza fra le politiche e gli interessi dei due paesi”.

I DOSSIER PIÙ CALDI SPIEGATI DA ARAGONA, PASTORI E SANGUINI

Giancarlo Aragona, già ambasciatore italiano a Mosca e Londra ed ex segretario generale dell’Osce, invita Conte a camminare con prudenza sul terreno più scosceso: la revisione dei rapporti con la Russia. Trump è alle strette, puntellato da intelligence, politica e opposizione, e potrebbe trovare nell’Italia una sponda utile per rilanciare il dialogo con Mosca. Bene, spiega l’ambasciatore, purché il governo gialloverde non sia messo di fronte a un aut-aut fra fedeltà all’Unione Europea e dialogo con il Cremlino: “Sarebbe un errore se Conte non tenesse bene a mente che l’intento di Trump di indebolire l’Unione Europea non coincide con il nostro interesse nazionale” taglia corto. Un disgelo definitivo fra Washington e Mosca è da accogliere come “un risultato di portata storica”. Peccato che manchino le condizioni. Trump è indebolito, deve fare i conti con un’inchiesta sul Russiagate sempre più spedita. “Dare l’impressione di un’Italia che sposa con chiassoso entusiasmo le politiche trumpiane indebolirebbe, piuttosto che rafforzare, la nostra mano con l’Europa” ammonisce Aragona. C’è poi il problema del burden-sharing all’interno della Nato, ricorda nel report Gianluca Pastori, docente di storia delle relazioni internazionali all’Università Cattolica di Milano. Qui l’Italia parte in vantaggio rispetto agli altri: “nelle ultime settimane (grossomodo dai giorni del G7 di Charlevoix) sembra essere emersa una convergenza di posizioni non del tutto inattesa fra l’amministrazione statunitense e l’esecutivo giallo-verde sui temi legati all’Alleanza Atlantica” spiega l’esperto. Dopotutto, sia pur con toni diversi dal Tycoon, anche l’Italia chiede da tempo di riformare la Nato per renderla meno obsoleta. Rimane da capire in quale direzione: il governo italiano, chiosa Pastori, continuerà a chiedere un maggior supporto per il fianco Sud, “ridimensionando l’attenzione sinora prestata agli alleati orientali e ai loro timori per una possibile minaccia russa”. Per il governo italiano immigrazione e terrorismo sono la priorità assoluta. Così nello Studio Ovale Conte avrà modo di parlare di missioni internazionali, magari avanzando timidamente la proposta di una revisione della presenza italiana in Afghanistan e in Iraq per spostare nel Nord Africa uomini e risorse dalla missione Resolute Support. “È del tutto evidente che sul tema della stabilità del Mediterraneo, inteso in senso lato, si giocherà la partita fondamentale della visita americana del presidente del Consiglio” dice Armando Sanguini, senior Advisor Ispi e rodato diplomatico.

LA PARTITA DEI DAZI

Ultimo, ma non per importanza, il dossier sul commercio. L’incontro fra Trump e Juncker a Washington ha gettato acqua sul fuoco di una guerra di dazi che sembrava imminente. Il governo Conte può così godere di un clima più disteso e un’aria assai più salubre di quella respirata a Capitol Hill dalla cancelliera Angela Merkel. A dispetto dell’escalation fra l’amministrazione Usa e Bruxelles, nei primi sei mesi del 2018 l’export italiano negli States è aumentato, scrive Lucia Tajoli, che insegna Politica Economica al Politecnico di Milano. “La rilevanza del mercato americano per le imprese italiane è notevole” aggiunge, “essendo questo il terzo mercato di sbocco per le esportazioni italiane, ed è ulteriormente cresciuto negli ultimi anni, ricevendo nel 2017 il 9% del valore complessivo delle merci esportate italiane”. A trainare l’export è il settore automobilistico, che costituisce un quarto del totale e rischia parecchio dai dazi sull’acciaio. Lo sapeva anche Sergio Marchionne, il manager che ha fatto grande la Fiat nel mondo e che è appena scomparso, che alla fine passava sopra le minacce di Trump sui dazi perché “politicamente” le capiva. La Fiat però è un’eccezione, e non fa testo. “L’introduzione delle tariffe da parte degli USA e le inevitabili rappresaglie” spiega Tajoli, “potrebbero scoraggiare l’internazionalizzazione di molte imprese, in particolare di piccole e medie dimensioni”. L’invito a Conte dunque, almeno sul commercio, è di non cantare fuori dal coro europeo per evitare danni collaterali: “La migliore strategia per l’Italia, come per tutti i membri dell’Ue, è quella di prendere una posizione negoziale forte comune nei confronti di agli Stati Uniti, indipendentemente dalle specifiche conseguenze individuali delle tariffe nel breve periodo”.

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