Al concetto di intelligenza artificiale molti – ancora in troppi – associano il termine futuro. La verità (scientifica e di mercato) è che siamo nel pieno dell’era dell’AI e non solo perché la metropolitana di Milano viaggia senza conducente o sempre più auto lo fanno o perché Google annuncia candidamente di rinunciare all’applicazione di propri sistemi sulle armi (ma perché quando aveva cominciato?); AI è semplicemente nell’ordine delle cose: il big data, i computer sempre più potenti (ne vedremo delle belle con i quantistici…) ci portano a relazioni fra persone e macchine che ridicolizzano le più azzardate previsioni di Asimov o Dick. IoT è miliardi di oggetti connessi che si intrattengono sempre più affabilmente con umani e non…
Le tecnologie e la Rete definiscono e abilitano l’esoscheletro che ci mette in comunicazione con l’intelligenza artificiale nel senso più ampio del termine. Basta un semplice ed economicissimo device che abilita senza limiti di spazio e tempo. Questo esoscheletro semplicemente digitale e già incredibilmente robotico può essere paragonato a una tuta da supereroi fatta con un vero e proprio ”tessuto intelligente – dice Salvatore Majorana a Industria Meccanica – capace di monitorare i parametri vitali di chi li indossa, di diventare fonte energetica portatile, o essere etichetta intelligente”. E moltissimo altro. Ovvio. Uno stargate per la seconda vita.
Ciò premesso, per definire e gestire i nuovi straordinari mercati, occorre abilitare gli umani, impresa di gran lunga più complessa che abilitare le macchine, ovviamente… Ecco perché dobbiamo occuparci seriamente di trasferimento tecnologico; ecco perché ne parliamo con Salvatore Majorana: “Perché la tecnologia si trasformi nel sentire comune, in nuovi stili di vita, perché l’uso e il consumo sia consapevole e non una dipendenza, bisogna rendere accessibili a tutti, decodificare e confezionare in modo opportuno le idee e le invenzioni degli scienziati”.
Abbiamo bisogno di tanti Majorana e tanti Kilometrirosso: per definire nuovi modi e nuovi mondi dove saper vivere. Davanti a noi ci sono territori inesplorati a cui dobbiamo guardare – se abbiamo informazioni giuste e competenze – con serenità: “Un esempio: il grafene, e i molti nuovi materiali che diventano inchiostro stampabile ovunque, consentendo la creazione di sensori, micro-batterie o piccoli sistemi autonomi e che di conseguenza abilitano a un ruolo in IoT qualsiasi oggetto, ma anche persone che potranno indossare capi sempre più interconnessi e sensorizzati. Soggetti e oggetti diventano attori di un nuovo ecosistema digitale”. Se non è esoscheletro questo! La persona è, e resterà, centrale in questo processo. Altro che robot, altro che minaccia al genere umano.
“A chi mi chiede se le macchine – o in generale la tecnologia – ci ruberanno lavoro cerco di far capire che finora ci hanno solo dato migliore qualità della vita; ci hanno costretto a evolvere con loro. In altri termini, la tecnologia è un amplificatore delle capacità umane e per sfruttarne al meglio le potenzialità (sia delle macchine sia degli uomini) ci tocca studiare, aggiornarci, lavorare. In ultima istanza potremmo considerare la tecnologia un potente stimolo allo sviluppo dell’homo sapiens sapiens… e ogni ondata di innovazione tecnologica ha innestato nuovo benessere e nuovi lavori”.
Alimentare il trasferimento tecnologico dai laboratori e dalle università alle aziende e quindi ai prodotti e al mercato è per noi più importante che per altri Paesi: l’Italia è la seconda economia manifatturiera d’Europa e se vogliamo affermare il nostro ruolo dobbiamo potenziare i territori in cui siamo più competitivi per poter evolvere verso queste nuove angolature di visuale: “Dobbiamo allenare il nostro cervello, abbiamo bisogno di avvocati che capiscano di coding, archeologici che capiscano di fisica; abbiamo bisogno di frammentare e riaggregare culture e competenze diverse.
In questo modo non spariranno i mestieri a causa dei robot; anzi, saranno potenziati aprendo nuovi scenari applicativi”. Salvatore Majorana ha perfettamente ragione quando dice che: “La tecnologia non deve essere considerata appannaggio dei tecnici”. Il futuro è culture nuove, non (solo) avanguardia tecnologia. Come si interpreta? “Costruendo ponti tra il mondo della ricerca scientifica e quello delle imprese. Avviato questo meccanismo di cambiamento, che è traumatico per entrambe le parti, costrette a uscire dalla propria comfort zone, entrano in gioco elementi di strategia industriale che possono ostacolare o accelerare lo scambio reciproco. La difendibilità di un ritrovato scientifico sul piano brevettuale, ad esempio, inciderà sulla capacità e sulla volontà di un’impresa di rischiare dei capitali. La dimensione e marginalità del mercato di riferimento giustificheranno sforzi industriali più o meno grandi, e solo un canale di scambio continuo con i ricercatori permetterà all’impresa di acquisire gli elementi necessari a fare queste scelte. È un percorso articolato, che richiede molta cura e va alimentato nel tempo”.
È così, per esempio, che si arriva a obiettivi impensabili, assurdi fino a ieri: “Un gruppo di ricerca, lavorando su nanoparticelle, ha brevettato un metodo per capire in pochi minuti e a occhio nudo se siamo entrati in contatto con un certo virus. Così probabilmente domani ci basterà lo smartphone e un kit da qualche euro per sapere se stiamo bene, e avremo medicine fatte su misura per ognuno di noi”. Ma è ancora detto che gli asini non possono volare?