Un nuovo capitolo della guerra (non più sotterranea) tra il presidente turco Erdogan e il predicatore Gulen riguarda l’assassinio dell’ex ambasciatore russo in Turchia, Andrei Karlov ucciso nel 2016.
Le forze dell’ordine turche hanno arrestato un ex agente di polizia, sospettato di aver preso parte all’agguato e puntando ancora il dito contro una non meglio precisata organizzazione terroristica, che però sarebbe affiliata all’ex sodale di Erdogan, accusato anche di aver orchestrato il golpe di due anni fa. Fatti, scenari e prospettive.
L’INDAGINE
Si chiama Ufuk G. (che ha negato le accuse davanti ai magistrati) ed è stato sospettato di essere un membro della stessa organizzazione terroristica connessa all’assassino dell’ambasciatore, Mevlut Mert Altintas. Karlov fu freddato da Altintas, allora ufficiale di polizia fuori servizio, mentre stava tenendo un discorso all’inaugurazione di una mostra d’arte ad Ankara. Altintas venne successivamente ucciso dal personale di sicurezza presente in sala. Mentre sparava aveva gridato “Allahu Akbar” e “Do not forget Aleppo!”.
Ad oggi sono in carcere cinque persone incriminate per i fatti, compresi tre poliziotti accusati di far parte della rete gulenista, filone su cui si è diretta immediatamente la magistratura turca, oltre a un imprenditore, il numero uno di Guru Media Broadcast Group, Hayreddin Aydinbas.
LE PROSPETTIVE
Lo scorso 2 aprile la magistratura turca aveva ordinato l’arresto del religioso musulmano Fethullah Gulen proprio per l’assassinio del diplomatico russo, dopo averlo accusato del golpe. Gulen, che vive in esilio autoimposto negli Stati Uniti dal 1999, ha negato l’accusa e ha condannato pubblicamente più volte il colpo di Stato.
Ma la partita riguarda anche gli affari (realizzati e mancati) sull’asse Usa-Turchia. E la posizione di Gulen, come quella del pastore americano Andrew Brunson, rilasciato da un tribunale turco dopo quasi due anni di prigione per accuse di terrorismo inventate, rappresentano un velo. Una settimana fa in concomitanza con il no del tribunale turco di liberare Brunson, sei senatori Usa hanno presentato una proposta di legge per limitare le istituzioni finanziarie internazionali nel concedere prestiti alla Turchia, osservando che il Paese è fortemente esposto con l’International Finance Corporation e la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo.
Due giorni dopo, ecco il report programmatico 2019 sulla difesa nazionale a stelle e strisce che includerebbe una disposizione che impedisce la consegna degli F-35 alla Turchia fino a quando il Pentagono non presenterà al Congresso lo Stato degli affari tra Washington e Ankara. Stessa tensione si riversa nell’Egeo, dopo il disimpegno Usa dalla base turca di Incirlik, con il successivo dispiegamento di uomini e mezzi in diversi siti ellenici.
LE STRATEGIE
Negli Usa gli occhi di analisti e osservatori si sono da tempo spostati su altri versanti. Come il Diyanet Center of America (Dca), una moschea e un centro islamico poco distante da Washington, costruita con i denari della Presidenza turca degli affari religiosi. Un ente molto vicino agli input erdoganiani, come quello che vuole il Presidente intento a organizzare e promuovere la realizzazione di moschee e centri islamici in tutto il mondo.
Lo stesso Erdogan non mancò alla sua inaugurazione due anni fa, con la coda polemica rappresentata dal fatto che sono in molti ormai a ritenere che la religione sia solo un pretesto per fare politica invasiva su suolo americano.
Lo ha detto qualche giorno fa a Fox News David Phillips, direttore del Programma per la costruzione della pace e i diritti presso l’Istituto per lo studio dei diritti umani della Columbia University: “Queste moschee non sono luoghi di culto, ma centri di mobilitazione politica che funzionano come le madrase, distorcendo la gioventù islamica e radicalizzante”.
È la ragione per cui i turco-americani vicini a Gulen hanno scelto di non frequentare la moschea del Maryland perché temono ritorsioni da parte degli integralisti erdoganiani.
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