Sembrerebbe schiudersi in Yemen uno spiraglio per un accordo di pace tra la coalizione araba a guida saudita-emiratina e i ribelli filo-iraniani Houthi, che si stanno scontrando dalla primavera del 2015 in una guerra che ha causato oltre diecimila vittime e provocato quella che le Nazioni Unite definiscono la più grave emergenza umanitaria che ci sia oggi nel mondo.
L’inviato speciale dell’Onu in Yemen, Martin Griffiths, è impegnato da settimane in un delicata azione di shuttle diplomacy tra le parti in conflitto, con l’obiettivo di riaprire le trattative di pace arenatesi due anni fa. Una missione che si è intensificata da quando, lo scorso 12 giugno, gli alleati hanno lanciato l’operazione “Vittoria Dorata” per strappare agli Houthi la strategica città portuale di Hodeida.
Un’offensiva che ha immediatamente messo in allarme le Nazioni Unite e gli operatori umanitari. La battaglia per Hodeida rischia infatti di interrompere il flusso di aiuti umanitari destinati alla popolazione yemenita, quasi del tutto dipendente dalla generosità della comunità internazionale. Flusso che transita in gran parte per questo capiente porto sul Mar Rosso dal quale i ribelli, oltre a ricavare una parte significativa dei propri proventi, ricevono le forniture militari in arrivo dall’Iran, inclusi i missili balistici che periodicamente vengono scagliati sul territorio dell’Arabia Saudita e degli Emirati. Due ottime ragioni, per la coalizione araba, per tentare un colpo di mano che, al di là del valore militare della preda, dovrebbe indurre gli Houthi a riconsiderare la propria posizione intransigente.
Questo, almeno, è il calcolo fatto dai vertici sauditi ed emiratini. Che dopo aver espugnato senza soverchie difficoltà l’aeroporto di Hodeida, hanno sospeso le operazioni militari per dare a Griffiths l’opportunità di persuadere gli Houthi a ritornare al tavolo negoziale. Come ha scritto ieri sul suo profilo Twitter il ministro degli esteri degli Emirati, Anwar Gargash, “abbiamo temporaneamente arrestato la nostra campagna per dare” una chance alla missione di Griffths. “Diamo il benvenuto”, prosegue il tweet di Gargash, “agli sforzi dell’inviato speciale dell’Onu (…) perché ottenga il ritiro incondizionato degli Houthi dalla città e dal porto di Hodeida. (…) Se questi sforzi pazienti dovessero fallire, crediamo che una pressione militare continua possa portare alla fine alla liberazione di Hodeida e forzare gli Houthi a impegnarsi seriamente nei negoziati”.
Scontando la sicumera di Gargash, la sospensione dei combattimenti offre alla coalizione due vantaggi: rasserenare la preoccupata comunità internazionale e, soprattutto, evitare di impegnarsi in una rischiosa battaglia urbana per la quale le sue truppe di terra non sono attrezzate. Il dispiegarsi di combattimenti strada per strada, casa per casa, in mezzo ai 600 mila residenti di Hodeida è qualcosa che gli alleati non possono permettersi e che metterebbe in serio imbarazzo i paesi schierati al loro fianco. Un segnale eloquente in tal senso è arrivato dagli Stati Uniti, che tre settimane fa hanno rifiutato la richiesta della coalizione di mettere a sua disposizione personale specializzato per sminare il porto.
La pausa nelle operazioni militari a Hodeida rappresenta perciò una formidabile opportunità per riaprire le trattative di pace. Due diplomatici occidentali coinvolti nelle vicissitudini yemenite hanno segnalato ieri al New York Times il proprio ottimismo: Griffiths ha la possibilità non solo di fugare lo spettro di una sanguinosa battaglia, ma anche di riaprire quei colloqui diretti tra le parti interrottisi bruscamente nel 2016.
Oggi Griffiths incontrerà una delegazione degli Houthi a Sana’a, la capitale dello Yemen caduta nelle loro mani tre anni fa. Subito dopo, si sposterà ad Aden, nel sud del paese, dove sarà ricevuto da Abdu Rabbu Mansour Hadi, il presidente yemenita la cui autorità è riconosciuta dalla comunità internazionale. Secondo le due feluche sentite dal Nyt, Griffiths riferirà entro il prossimo weekend dell’esito di questi colloqui al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che dovrebbe così ratificare i risultati dell’offensiva diplomatica del suo inviato. Potrebbe essere la parola fine per le inenarrabili sofferenze della popolazione yemenita, vittima di un conflitto senza sbocchi.