La portavoce del dipartimento di Stato americano, Heather Nauert, ha diffuso una nota ufficiale “for immediate release”, per pubblicazione immediata, contenente un duro monito contro il regime siriano di Bashar el Assad. L’accusa di Washington è diretta anche se non nuova, seguendo considerazioni che almeno da sette anni vengono fatte a livello internazionale seguendo i report terzi delle associazioni sui diritti umani.
Gli assadisti, dice l’ufficio della portavoce nella nota stampa, fin dal 2011 (anno di inizio delle proteste contro il regime), hanno perseguitato migliaia di persone – 117 mila è il numero citato. Il “regime ha sistematicamente arrestato, torturato e ucciso decine di migliaia di civili siriani in risposta alla loro legittima e non violenta richiesta di maggiore libertà, diritti e riforme politiche”. Quelli che non sono morti, continua il dipartimento di Stato, sono ancora sotto la custodia del regime, che sfrutta un “network di prigioni” clandestine dove gli uomini di Assad torturano e uccidono chiunque si opponga al rais, strozzando qualsiasi forma di opposizione.
Quello che il ministero degli esteri americano dice è del tutto noto, dimostrato per esempio anche attraverso eventi culturali. Un esempio: la mostra ospitata al museo Maxxi di Roma due anni fa, “Caesar”, fatta con le immagini fornite da un ex ufficiale della polizia militare siriana incaricato di scattare le foto delle torture tra il 2011 e il 2013. Il rapporto sulle fotografie di Caesar, nome in codice di protezione per il siriano redento, è stato presentato al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il 15 aprile 2014.
Già a luglio di quell’anno, Caesar aveva testimoniato davanti al Congresso americano; la prima mostra era stata organizzata al Museo dell’Olocausto di Washington, poi un’altra trentina di foto esposte al Palazzo di Vetro di New York.
Il dipartimento di Stato guidato da Mike Pompeo, con la ferma condanna annunciata da Nauert, si intesta anche in questa occasione il ruolo di centro dell’impegno globalista internazionale dell’amministrazione Trump. La posizione sul regime siriano è infatti un elemento di continuità con le passate amministrazioni, un impegno verso la tutela internazionale dei diritti umani (e sul ruolo di leadership che l’America intende avere), un passaggio di politica idealista di altro livello rispetto al disimpegno fin qui perseguito dalla Washington trumpiana sul dossier siriano.
Inoltre, segna anche una certa postura che dalla Siria passa verso la Russia. Il governo di Mosca ha sostenuto pesantemente il regime siriano, sfruttando l’approccio pragmatico che si sarebbe portata dietro la ricostruzione propagandistica secondo cui ogni genere di opposizione interna ad Assad era assimilabile a gruppi terroristici. Calcando questa linea con l’appoggio diplomatico russo, a Damasco sono state concesse seconde, terze, quarte chance d’impunità, per esempio dopo gli attacchi chimici o dopo i massacri perpetrati per riconquistare le sacche di territorio finite in mano alle opposizioni (che, va detto, facendo involontariamente il gioco di questa ricostruzione spinta dagli uffici di info-war russi, siriani e iraniani, hanno via via preso posizioni sempre più radicali: ma qui la dinamica è complessa, e c’è certamente una colpa in quel pragmatismo con cui ci si è approcciati alla guerra in Occidente, ndr).
Da Mosca non sono mai arrivate condanne per le malefatte del regime, per le repressioni o per le violazioni del diritto di guerra: anzi, tutto è stato sempre mascherato da ricostruzioni alterate, deviate, notizie false e dissimulazione. L’Occidente ha circondato Assad da steccati di linee rosse che il rais ha sostanzialmente violato con cadenza continuativa (coperto dalla Russia e dalla sua disinformazione, entrata ormai anche tra i corridoi decisionali).
Il dittatore siriano è stato avvolto da condanne di rito contro i vari abusi con cui ha soffocato le opposizioni meno violente, ma sostanzialmente, anche dopo questa uscita da Foggy Bottom, sembra improbabile che ci sia un reale interesse per fare di più, nonostante è proprio su questo genere di colpe che si basa chi chiede per la Siria un futuro senza Assad. Ma pare difficile, seguendo l’andamento dei fatti e delle congiunture, che il rais possa perdere la guida del paese, di cui ha riconquistato il controllo col sangue – difeso dalla Russia e anche dal silenzio, complice, di alcuni paesi occidentali.