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Chi paga la crisi della lira turca? L’analisi di Valori

turchia erdogan

La struttura finanziaria della attuale crisi turca è, come spesso accade in questi casi, piuttosto semplice all’inizio: il credito alle imprese e alle famiglie è stato, come sempre accade in un periodo elettorale, “pompato”, tanto che l’inflazione turca, prima dello scoppio della crisi, era già arrivata al 16%. Recep Tayyp Erdogan ha, poi, promesso, sempre per le elezioni politiche del 24 giugno scorso, forti investimenti per le infrastrutture. La solita, vecchia teoria di Napoleone III, quand le bâtiment va, tout va, ma oggi gli investimenti infrastrutturali sono a relativamente basso moltiplicatore (1,9 in media) e sono sempre più capital intensive, piuttosto che labour intensive. Inoltre, diviene imprevedibile, tecnicamente, la quota di ritorno degli investimenti nel tempo e, se c’è, il rendimento medio futuro. Certo la teoria economica moderna ci dice che anche i costi infrastrutturali più alti inducono aumenti netti in settori anche non direttamente dipendenti dalle infrastrutture, come il costo del traghetto e il guadagno del ristoratore sull’isola, classico esempio, ma comunque i soldi in prestito per queste operazioni sono o pochi o tali da creare ritorni a breve e rilevanti, cosa che non può mai accadere.

Ma le promesse elettorali di Erdogan erano comunque inevitabili: secondo gli ultimi sondaggi interni prima del 24 giugno, il 60% degli elettori storici dell’Akp (Adalet ve Kalkınma Partisi, Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) erano già fidelizzati e stabilizzati, soprattutto riguardo alla figura del Leader, ma il 30-40% dei vecchi elettori Akp era insoddisfatto, fino a mettere in forse il proprio voto per Erdogan; e il 10-15% era ormai stanco dell’Akp e del suo Capo. Se, Dio non voglia, gli Usa cercassero la destabilizzazione economica di Erdogan per punire “il tiranno”, sciocchezza ideologica alla quale credono solo loro, o se l’Ue pensasse di distruggere il “fascista” Erdogan per liberare il popolo turco, destabilizzando un’area immane e essenziale per la sicurezza dell’Europa, sarebbe la fine: l’emigrazione incontrollata diverrebbe una invasione e il contatto diretto tra il nulla strategico Ue e il jihad mediorientale diverrebbe letale, ma solo per noi. Sempre per le elezioni dello scorso giugno, Erdogan aveva promesso investimenti pubblici (ed oggi l’economia globalizzata è tale da non permettere promesse su nessun investimento privato, senza però finanziare quelli statali) e con un blocco alleato di opposizione all’Akp, mai apparso prima d’ora, dei quattro partiti di opposizione, previsione nera per il fondatore del primo partito al potere.

Occorre quindi che i “mercati internazionali” se ne accorgano in tempo: senza promesse elettorali non si vince mai; e senza un po’ di spesa pubblica elettorale non c’è alcun consenso. In Occidente come in Oriente. La rivolta giordana della primavera scorsa è un indice: le primavere sono economiche, oggi, e destabilizzano un’area maggiore rispetto a quelle puramente politiche del 2011. Non basta più per vincere le elezioni, come accade ancora, ma per poco, in certi paesi occidentali, la “comunicazione”, lo spin manipolatorio, qualche “libertà” erotica in più. La gente vuole, e vorrà sempre, lavoro, sicurezza, infrastrutture, salario, pensioni. Stabilità, soprattutto stabilità. Il problema, che vale anche per l’Italia, è che il capitale contemporaneo è post-nazionale e non paga le tasse da nessuna parte, mentre i redditi medi calano ormai da undici anni e non sono ulteriormente aggredibili dal Fisco. E quindi, dato che non si può generare inflazione, visto che i “mercati” vedono solo quella, non si capisce più da dove si debbano trarre le risorse, anche modeste, per dare alle masse quello che chiedono da sempre agli eletti, fin dai tempi di Marco Agrippa.

Ma c’è anche, quindi, la citazione elettorale del leader turco, strana anche all’interno di un progetto e discorso tradizionalmente neo-ottomano e sunnita come quello del Partito di Erdogan, perfino della figura di Atatürk, e sarebbe stata impossibile anni prima. Poi Erdogan ha sottolineato, in campagna elettorale, l’impegno ulteriore turco in Siria, altro elemento nettamente nazionalista e perfino laico che nessuno avrebbe trovato nell’Erdogan delle origini e, infine, un richiamo del presidente di Ankara ai legami con la Ue. Ovvio, l’Unione Europea diviene oggi la naturale sponda strategica e economica rispetto alla crisi con gli Usa, una vecchia tensione dovuta alla presenza di Fethüllah Gülen negli Stati Uniti. Gülen, predicatore-politologo turco, un po’ sufi e un po’ tradizionalista, già alleato di Erdogan fino al 2013, ma che dal 1999 risiede nelle foreste della Pennsylvania.

Fethullah Gülen sarebbe l’ispiratore storico, con la sua setta, l’Hizmit, “Il servizio”, della forte penetrazione delle burocrazie turche dell’Akp, soprattutto nel mondo dell’intelligence e delle Forze Armate, nonchè del golpe turco del 15 luglio del 2016. E, probabilmente, Washington ha guardato da sempre al politologo occidentale-predicatore sapienziale che ospita come ad una sorta di minaccia ad Ankara, una spada di Damocle tale da permettere all’America una “primavera araba” anche in Turchia o anche una “rivoluzione colorata” qualora ce ne fosse bisogno.
Sette esoteriche dell’Islam, reti sapienziali e occulte, tra golpe e Rivelazione, spesso collegate con la cultura e la politica occidentali più raffinate, relazioni tra politica, intelligence ed esoterismo.

Nil sub sole novi: anche il Grande Oriente d’Italia, quando il nostro Paese contava ancora qualcosa, fu la sola copertura scelta dai “Giovani Turchi”, che organizzarono la loro azione politica e militare tra le colonne delle R. Logge italiane di Alessandria d’Egitto, Istanbul e Salonicco. Ma torniamo all’economia: il rapporto debito-PIL, tema ossessivo dei mezzi economisti in voga oggi, è in Turchia bassissimo, malgrado tutto (arriva solo al 28%). Piuttosto, ad Ankara vi è oggi un forte deficit commerciale delle partite correnti, che tocca il 6%. Così, il debito privato è salito fino a valere oltre il 50% del PIL, mettendo ovviamente in difficoltà la valuta. Ai primi di luglio, tutti gli investitori esteri si aspettavano, ed era una “aspettativa razionale”, un netto rialzo del tassi di interesse della Lira turca. Ma naturalmente Erdogan, che è soprattutto un politico, un leader che, come tutti, seeks re-election, “cerca la rielezione”, come ci dicono i politologi della scuola della Scelta Razionale, ha bloccato i tassi di interesse in basso, per evitare impatti sui consumi interni e sul costo dei mutui.

L’idea, a parte l’influenza diretta e istituzionale-familiare di Erdogan sulla Banca Centrale turca, è che, come dicono i manuali neoclassici oggi in voga ovunque, la crescita dei tassi di interesse è generata da una inflazione elevata. E se fosse vero il contrario? E qui la freccia del tempo ha una grande importanza. L’impatto è stato, prevedibilmente, negativo: l’inflazione è salita molto rapidamente, dato che molti beni e servizi vengono dall’estero, poi gli investitori si sono spaventati e solo a questo punto arrivano anche, per non farci mancare niente, i nuovi dazi di Donald Trump. Inoltre, le imprese turche chiedono da sempre denaro soprattutto all’estero, per poter essere considerate affidabili, visto che la Turchia dell’Akp si è configurata, come tutte le pericolose success-stories economiche recenti, come Paese volto quasi unicamente all’esportazione. La sapienza economica einaudiana consiglierebbe un equilibrio tra dimensione del mercato interno e di quello esterno; ma oggi tutti leggono a pappagallo i manuali alla moda, dove le equazioni sembrano scritte per i gas ideali, non per le economie reali.

A parte i dazi di Trump, che uccidono un uomo morto, e di cui parleremo, la struttura critica dell’economia turca è composta dalle sequenti questioni, che sono ancora tutte sul tappeto: a) la caduta libera della Lira, indice primario del sentiment degli investitori esteri, una valuta turca scesa per dodici giorni di seguito di fronte al dollaro, la “striscia” della lira più lunga dal 1999, l’anno in cui Gülen si è rifugiato negli Usa e in cui dovette arrivare il salvataggio, in dollari, del Fondo Monetario Internazionale. Vivendo la Turchia di molte importazioni a moneta forte di contro a una economia regolata sull’export, che deve essere fondata su una valuta debole per avere le dimensioni necessarie all’equilibrio; e quindi mantenendo la valuta turca sempre artificialmente “debole”, è scoppiata rapidamente una inflazione di tipo weimariano. Poi, b) gli oneri finanziari, che sono saliti, come sempre accade in questi casi, più dell’inflazione, perchè gli investitori chiedono una garanzia sia per compensare l’inflazione che per garantirsi dal crollo della valuta. Per le c) partite correnti, altro problema strutturale, è ancora ovvio che, in queste condizioni, la Turchia debba attrarre con altissimi tassi di rendimento capitali dall’estero; e solo per tenere in equilibrio l’economia. Si innesca uno squilibrio che si risolve come per un addicted alla droga: tanti capitali esteri sempre più marginalmente difficili da ripagare, anche solo per la quota degli interessi.

Poi, come in una nota incisione di Dürer, arrivano i flagelli della maggiore incidenza dei debiti esteri, proprio quando costa di più comprare valuta “buona” con la sola Lira turca, le sofferenze bancarie in crescita e, infine, la totale dipendenza turca dal petrolio e dal gas estero, che sono venduti in dollari e, guarda caso, stanno aumentando il loro prezzo unitario. La struttura dell’economia turca, a parte l’attuale situazione, è strettamente export oriented, lo abbiamo visto, con le importazioni interne che dipendono direttamente dai prezzi del petrolio e del gas naturale. I prezzi in aumento stabile di quest’ultimi hanno portato rapidamente a un deficit della bilancia commerciale turca che ammonta a 57 miliardi di Usd, nel solo periodo tra il marzo 2017 e il terzo mese dell’anno successivo. Non c’è quasi propensione al risparmio interno (è quello che invece salva, e salverà l’Italia) e quindi la dipendenza turca dai prestiti esteri si è ormai cronicizzata. Che si nutre di basso valore della lira turca, che è però il principale problema quando si devono ripagare i debiti. Il debito estero già contratto nel 2018 ammonta già a 240 miliardi di usd. Naturalmente, in queste condizioni le imprese turche operanti all’estero non fanno certo rientrare i loro profitti, che rimangono nei mercati più redditizi, mentre si acuisce la solvibilità delle banche turche.

Ma la banca di emissione di Ankara ha reagito, alla fine, secondo la classica regola del too little too late, troppo poco troppo tardi, quando la lira è arrivata 4,9290 nei confronti del dollaro, restringendo solo allora la base monetaria e aumentando finalmente i tassi di interesse. Chi paga allora la crisi, in Turchia? Tutti quelli, e sono tantissimi, che hanno contratto debiti in dollari o in euro, ma anche i lavoratori non stanno certo meglio. La tassazione indiretta sui redditi dei dipendenti pesa ormai per il 65% del totale del salario, aumenta naturalmente la disoccupazione (e quindi il “costo della politica”) e, infine, saranno svalutate anche le esportazioni turche, per un periodo tale da coprire almeno la differenza tra i valori precedenti alla crisi e quelli del punto x in cui i mercati dichiareranno cessata la grande inflazione turca. Che loro stessi, utilizzando gli errori di Ankara, hanno appiccato.

Una inflazione da ripagamento forzato del debito estero, politicamente eccessivo. Una struttura weimariana, appunto. Sarà probabilmente messa in soffitta la Visione 2023, che Erdogan aveva svelato al pubblico nel 2011, proprio l’anno delle “primavere arabe”. E magari che forse oggi non sia arrivata, dopo la crisi siriana in stallo e ormai vinta da Assad e da Putin, l’epoca delle “primavere arabe” indotte dalla crisi economica, piuttosto che dalle “rivolte democratiche”, di solito gestite dalla Fratellanza Musulmana o da qualche gruppo fondamentalista, con l’accordo delle principali democrazie occidentali? La crisi turca come se fosse una piazza Tahrir egiziana ma solo finanziaria? È una ipotesi da non scartare. La Visione 2023 di Erdogan puntava, secondo le dichiarazioni di Erdogan, ad una forte crescita dei redditi medi e a un Pil pro-capite medio di almeno 25.000 usd, con il raggiungimento per la Turchia del posto di 10° economia del mondo, il triplicare le esportazioni arrivando a 500 miliardi di dollari, il creare dieci marchi “globali” turchi (una idea non male, che varrebbe anche per l’Italia) e, infine, l’idea era quella di chiudere l’annosa questione dell’accesso all’Unione Europea.

L’Accordo di Associazione tra Ue e Turchia è stato siglato nel 1964. La Fase Definitiva del suddetto accordo riguarda un’accordo doganale completo tra Ankara e l’Unione, poi è arrivata la “politica di preadesione” nel 1999, che ha imposto, tra l’altro, la modifica costituzionale dei rapporti tra Fotze Armate e il sistema politico, garantendo in questo modo la rapida islamizzazione del Paese. Ciechi o stupidi? Non lo sappiamo. Poi, nel 2004, l’UE esortava ancora ad aprire i negoziati con la Turchia, negoziati che sono peraltro ancora in corso, arrivando nel 2016, pochi giorni prima del golpe del 15 luglio, ad una Dichiarazione in cui “si riconferma l’impegno ad attuare il piano d’azione come attivato il 29 novembre 2015” mentre si conviene tra le parti che il processo di adesione debba essere “rivitalizzato”.

Lingua di latta in bocca di legno, come dicevano gli oppositori del regime sovietico, quando leggevano le dichiarazioni ufficiali del Pcus. Tornando all’economia, perfino l’ormai improbabile piano turco per il 2023 diviene possibile solo se si ha una crescita forte e lunga, ovvero se si aumenta sul serio, prima cosa, il risparmio interno, si devono generare investimenti e non consumi indotti da aree a moneta forte, mentre si deve ridurre la dipendenza della lira turca dai capitali esteri. Lo shift tra dollaro e euro sarebbe possibile, in Turchia, visto che ormai il 70% degli Investimenti Esteri Diretti in Turchia proviene dalla Ue, che pure è un minuetto giuridico-sociologico-umanitario. Ovvero, se si dedollarizza parzialmente l’economia turca e si chiamano investimenti da aree come la Ue, primariamente, poi dalla Federazione Russa e dai suoi Stati amici dello Sco, Shangai Cooperation Organization e, quindi, dalla Cina. Ma ciò significa, per la seconda forza armata della Nato, una trasformazione radicale di impostazione strategica. Ankara dovrebbe smetterla di sostenere, per la Cina, cosa che comunque fa sempre di meno, i jihadisti turkmeni dello Xingkiang, dovrebbe poi favorire sul serio le operazioni russe in Siria, con la garanzia della non continuità territoriale della futura Rojava curda tra Siria settentrionale e territorio anatolico, ma oggi comunque i curdi combattono insieme ai siriani ad Idlib, infine, per la Turchia futura, acquistare petroli e gas naturale in rubli e renmimbi da Cina e Russia, con investimenti “marchiati” per entrare nei mercati centro-asiatici e estremo-orientali. Un nesso evidente tra la ricostruzione economica e il riposizionamento strategico, una nuova visione del Patto Atlantico ad Est, che si ritroverebbe nudo verso il Golfo Persico e privo di aree tali da controllare la Federazione Russa a Sud.

Una sconfitta fondamentale della Nato di fronte all’aumento dei dazi usa per i beni turchi. Una follia. Ma Erdogan ha, ormai, anche altre certezze: che occorre affidarsi sempre di meno al mondo arabo sunnita (anche se la Visione 2023 sembra quasi simile a quella, quasi omonima, scritta da Mohammad bin Salman, il principe saudita) visto che i sauditi hanno altro a cui pensare; e che sono già benvenuti nel mondo dell’alto debito pubblico detenuto da investitori esteri. Poi Erdogan è ancora convinto che la Russia rimane un partner non affidabile e comunque incapace, date le dimensioni della sua economia, di sostenere la Turchia in crisi, poi che la Cina ha altre priorità strategiche nel Mediterraneo e infine che l’Africa, dove Erdogan ha puntato molto, è un mercato ancora minuscolo. Ci sarebbe anche il minuetto settecentesco, tutto lumi e trinomi, della Ue, ma non se ne vede l’uscita, tra una dichiarazione d’intenti e l’altra. Tutto questo gioco vale quindi la candela dell’aumento dei dazi di Trump? Vediamo. Trump ha dichiarato, nelle more della crisi della lira turca, che i diritti di importazione dell’acciaio turco negli Usa sarebbero aumentati del 50% e quelli dell’alluminio del 20%.

C’è anche la solita questione di Gülen, nella tensione tra Usa e Turchia, e inoltre la nuova tensione riguardante la detenzione ad Ankara di un pastore protestate nordamericano, Andrew Branson, accusato dalla Polizia e dai Servizi turchi di spionaggio a favore dei curdi. Il che, data la lunga tradizione di utilizzazione, da parte delle Agenzie Usa, delle loro sette religiose nel lavoro di intelligence, non sembra poi una accusa peregrina. C’è, oltre la imprevedibile geoeconomia tariffaria di Trump, anche l’azione della Fed. Dalla crisi di Lehman del 2008, la Federal Reserve compra e stabilizza con i derivati i titoli sovrani e delle maggiori banche, emessi o depositati in una fase al limite della bancarotta. Nel 2017 la FED ha però deciso di “normalizzare” i bilanci, lasciando ai mercati i titoli già acquisiti di enti, sovrani o meno, ancora in pericolo ma stabilizzati e quindi a maggior prezzo. Li vende a poco, ma ci guadagna di più.

Il portafoglio della Fed in buoni di tal genere dovrebbe diminuire di 315 miliardi di Usd nel 2018 e di altri 437 miliardi nel 2019. Una massa di carta che riattiverà gli investimenti a breve e le operazioni “mordi e fuggi” dei mercati. Ovvi, quindi, gli effetti di prolungamento della crisi generale e dell’alto assorbimento di capitali da parte di enti come la Fed, capitali che invece potrebbero essere utilizzati nella ripresa economica delle aree oggi periferiche del mercato-mondo.

Effetti sull’Euro? Ci saranno, e molti, data la presenza dell’economie europee in Turchia. E, quindi, non è da escludere una pressione forte e stabile del dollaro sull’euro, che avrà effetti geopolitici facili da prevedere. I tempi di scadenza della crisi turca, saranno misurati sui tempi di recupero del risparmio interno turco e sul possibile shift del debito turco tra la moneta statunitense e quella, che è solo in parte pagatore di ultima istanza, di parte dell’Unione Europea.

Quando i turchi avranno altri soldi, arriverà un’altra stretta inflazionistica, occasionata dalle scelte politiche spesso inevitabili dei leader. E ricomincerà la giostra. Un giro che è strutturalmente già pronto, soprattutto per le economie meridionali della Ue. La posizione, tutta strategica e ossessionata dalla questione migratoria, della Germania sulla crisi turca ci fa protendere verso questa equazione. Berlino aiuterà Ankara, ma in termini anti-Usa (che tra poco attaccherà con i “mercati” il surplus commerciale tedesco) e comunque restringendo duramente l’area esportatrice turca, che dovrà comunque adattarsi alle “catene del valore” della Germania.



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