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Cose turche. La crisi del regime di Erdogan e il rischio di effetto domino

Erdogan

Penso sia arrivato il momento di fare un minino di chiarezza. Da qualche giorno, anche in Italia, si è iniziato a parlare della grave situazione di svalutazione che sta vivendo la lira turca nei confronti del dollaro.

Occorre per prima cosa sottolineare, soprattutto per chi non segue gli aggiornamenti dalla Mezzaluna su base quotidiana, che non si tratta di una crisi nata ieri. E nemmeno l’altro ieri. I mercati turchi sono sempre stati estremamente ballerini. E qui, la prima esigenza di chiarezza. A molti, soprattutto ai ciechi sostenitori della Turchia in Europa (e quanti ce ne sono ancora in Italia) piaceva pensare che la Mezzaluna fosse un’inesauribile gallina dalle uova d’oro. Tanto che, con la tipica logica di chi vuole combattere determinati meccanismi di tipo utilitaristico e poi è il primo a utilizzarli, proponeva come argomentazione di guardare alle opportunità economiche che offriva Ankara, prima di voltare loro le spalle. Il risultato, è che, un po’ da parte di tutti, si è lasciato per troppo tempo far fare a Recep Tayyip Erdogan quello che voleva. In Siria come sui mercati di casa sua, per non parlare dell’annientamento sistematico dei diritti umani, argomento che, come noto, non è certo ai primi posti delle cancellerie europee e solo a farsi alterne in determinati circoli.

Non è mia intenzione svalutare (scriviamo sottovalutare, ché di svalutazione in giro ne abbiamo già troppa) l’importanza e il ruolo di questo Paese. Il problema è che la Turchia, per motivi che andrebbero meglio esplicitati in un post ad hoc, ha un’economia fragile, che naviga sostanzialmente sul nulla e questo lo sapevano in molti. Sapevano anche che prima o poi il bubbone sarebbe scoppiato e che lo scoppio sarebbe andato di pari passo con l’accentramento di tutti i poteri da parte di Erdogan.

E arriviamo alla situazione degli ultimi giorni. Da quando Donald Trump ha preso il potere, ad Ankara sono stati mandati messaggi ben precisi, tutti documentati nei miei pezzi che potete trovare nell’archivio di Formiche.net. Da luglio 2016, la Turchia accusa gli Stati Uniti di aver avuto una parte nel fallito golpe, ormai celebre non solo per la sua durata record, appena sei ore, ma soprattutto per le purghe senza precedenti che si sono susseguite nei mesi successivi e che sono ancora in corso.

Con il cambio di amministrazione a Washington, le relazioni si sono fatte più difficili. Erdogan sperava di poter fare sostanzialmente il bello e il cattivo tempo come sotto l’amministrazione Obama, tanto, troppo reticente, scopriremo un giorno se in buona o cattiva fede, nei confronti del capitolo Turchia. Ma al presidente di Ankara è andata male. Malissimo.

La casa Bianca ha fatto arrivare subito un paio di messaggi nei quali ha fatto capire che spazi di manovra per trattare ce n’erano pochissimi. Quasi un anno fa, le telefonate fra Ankara e Washington sono state molte, ma non per l’estradizione di Fethullah Gülen, ex imam ancora troppo potente all’estero e residente in Pennsylvania, un tempo grande alleato di Erdogan e oggi considerato il male assoluto da tutto il Paese. Le telefonate erano a causa dei processi a carico di Reza Zarrab, businessman turco-iraniano, accusato di aver aiutato la Turchia ad aggirare le sanzioni contro l’Iran nel 2012, quando l’amministrazione Obama non c’era, o se c’era faceva finta di dormire, e che con le sue dichiarazioni potrebbe trascinare nel gorgo il presidente turco e tutti i suoi fedelissimi.

Da qui, la lira turca ha iniziato la sua discesa verso l’inferno di questi giorni. La situazione nel nord della Siria, dove con l’operazione Ramoscello di Ulivo, ufficialmente contro Isis ma ufficiosamente contro i curdi, Washington è stata messa in difficoltà. Ci sono poi da considerare i rapporti sempre più stretti con la Russia di Vladimir Putin e l’Iran, gli occhiolini strizzati alla Cina e, in ultimo, ma mica troppo, la decisione di Donald Trump di interrompere l’accordo sul nucleare e ripristinare le sanzioni a danno di Teheran.

Un effetto domino che parte proprio dalla ‘lezione’ ad Ankara sui mercati e chissà dove potrebbe finire. In tutto questo, anche oggi, le uniche cose che il presidente Erdogan è stato capace di fare sono state attaccare i social e promettere che la Turchia vincerà questa battaglia. Il ministro delle Finanze, Berat Albayrak, meglio noto come il genero del presidente, avrebbe dovuto annunciare, più nel dettaglio, un nuovo piano di rilancio dell’economia turca, ma è stato zitto.

La Banca centrale ha promesso che verrà immessa sul mercato tutta la liquidità necessaria per fronteggiare la situazione, ma sulle reali riserve della Merkez Bankasi in più di una persona nutre dubbi.

Erdogan contro Trump, con l’immancabile divisione fra le tifoserie. E se in Turchia il presidente di Ankara ce li ha in buona dose dalla sua parte, raccoglie paradossalmente consensi anche al di fuori dai confini nazionali. Le dichiarazioni di Mosca, che si dice favorevole a condurre gli scambi in moneta nazionale, oltre ad avere conseguenze catastrofiche dal punto di vista tecnico, potrebbero innescare meccanismi deleteri a livello ideologico e dare nuovo impulso ai sovranisti di casa nostra.

Lette con un minimo di grandangolo, le mosse di Trump sono dettate dalla necessità di ricondurre Erdogan, e per estenzione, la Turchia, alla ragione. Quando, bene inteso, l’opzione migliore sarebbe quella di aver altro interlocutore con cui trattare, ma abbiamo visto come siano andate le elezioni super anticipate dello scorso 24 giugno.

L’estremo tentativo per tenere la Turchia in qualche modo fra noi ed evitare una contrapposizioni fra due mondi: gli Usa e in qualche modo l’Occidente, plus alleati di convenienza o circostanza da una parte e un blocco russo-turco-iraniano e forse anche cinese dall’altra. Dove qualche stolto di casa nostra sarebbe anche capace di prendere le parti del secondo o rimpiangere questa Turchia.



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