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Le differenze fra le visite in Cina di Tria e Geraci. Il premier (a capo dell’intelligence) dovrebbe chiarire

L’Adriatico sarà il terminale della nuova Via della Seta? Quella che fino a pochi mesi fa era una suggestione ora inizia a diventare una prospettiva concreta. La doppia missione in contemporanea Mise-Mef in Cina sta dedicando ampio spazio alla partecipazione italiana al progetto delle rotte commerciali euro-asiatiche lanciato da Xi Jinping nel 2013. Oggi il ministro dell’Economia Giovanni Tria e il sottosegretario al Mise Michele Geraci si troveranno entrambi a Shanghai, separatamente. Le due visite del governo gialloverde scorrono parallele. Quella di Tria mantiene un alto profilo istituzionale, e vanta un seguito significativo con le primarie imprese del Paese. Le intese siglate da Fincantieri e China State Ship Building Corporation, Snam e State Grid International Development, Cdp e Bank of China sono il segno di un’azione chiara e puntale. Senza contare l’annuncio di Bankitalia (il vicedirettore Fabio Panetta è con il Ministro in Cina) di un nuovo portafoglio in renminbi: una mano tesa a Pechino per a sostegno del sistema monetario del Dragone. Il sottosegretario Geraci, che coordina la task force al Mise e ben noto come estimatore del regime di Pechino, si occupa invece di dossier quali la digitalizzazione delle pmi, gli investimenti eco-friendly delle aziende cinesi nelle infrastrutture italiane. Le mire dell’uomo di Di Maio comprendono i porti (a partire da Trieste) ma anche Alitalia, di cui il governo Conte non vuole cedere più del 49%. L’obiettivo sembrerebbe comune: affermare il ruolo italiano nel progetto Belt and Road Initiative voluto da Xi in una logica di affermazione globale.

L’ITALIA E LA VIA DELLA SETA

Finora il governo ha mostrato di avere un approccio propositivo nei confronti del grande piano infrastrutturale dell’ex Celeste Impero. Cinque Stelle e Lega hanno sempre avuto due visioni diverse sulla Cina. Più possibilisti i primi, più diffidenti i secondi. L’impulso di Michele Geraci, sottosegretario proposto dal Carroccio ma anche attivo sul blog di Grillo, ha lavorato molto per portare anche la Lega su una posizione di maggiore apertura circa l’apporto italiano alla nuova Via della Seta. Tria per parte sua ha incontrato a Pechino Wang Yanzhi, direttore esecutivo del Silk Road Fund, braccio finanziario dell’iniziativa ed azionista in Autostrade (“la nazionalizzazione non ci sarà” lo ha rassicurato il Ministro), Tian Guoli, presidente di China Construction Bank, il secondo polo bancario cinese, e il presidente del fondo sovrano China Investment Corporation, Tu Guangshao. Il messaggio: come un tempo la Via della Seta si fermava a Roma e a Venezia, così oggi l’Italia è lo sbocco europeo naturale della Belt and Road Initiative. Geraci ha avuto a Shanghai uno scambio di vedute con i rappresentanti del fondo sovrano. I cinesi – ha riferito al Sole 24 Ore – “appaiono interessati soprattutto all’Adriatico, in quanto più vicino e collegato all’area dell’Europa centrale ed orientale”. Un’altra occasione di confronto – scrive Stefano Carrer sul Sole – sarà il summit Focac (Forum of China-Africa Cooperation), l’evento annuale con cui lunedì e martedì Xi ospiterà a Pechino circa trenta leader africani. Geraci sarà in città (Tria già in Italia) e non è escluso che possa cogliere la palla al balzo per parlare di cooperazione fra Italia e Paesi Terzi sulla Belt and Road. Una mossa in assoluta controtendenza con i principi dell’interesse nazionale, europeo ed atlantico. Si era sempre affermato il ruolo del nostro Paese in Africa proprio come alternativa all’invasione gialla. C’è stato un ripensamento? Il presidente del Consiglio che è al vertice della sicurezza nazionale sostiene questo ribaltone strategico?

L’ITALIA FRA SCILLA E CARIDDI. LA VERSIONE DEL PROF. BOZZO

“Si tratta di vedere se queste due visite parallele rientrano in una strategia di lungo periodo o sono piuttosto finalizzate a risolvere problemi contingenti come la fuga dei capitali stranieri dai nostri titoli di Stato. La missione del sottosegretario Geraci mi sembra più orientata nella prima direzione” spiega a Formiche.net Luciano Bozzo, presidente del corso di Laurea magistrale in Relazioni internazionali e all’Università di Firenze e direttore del Corso in Intelligence e sicurezza nazionale. Il piano Obor farebbe del porto di Trieste, assieme a quelli di Gioia Tauro, Taranto, Augusta e Livorno, il punto di arrivo della nuova via della Seta. Ma – spiega Bozzo ­– è bene non guardare alle mire cinesi in una prospettiva naif. “Per capire la politica cinese, tanto quella estera che quella interna, è utile un’antica massima attribuita a Mao: ‘Non importa che il gatto sia bianco o nero, l’importante è che prenda i topi’. I cinesi agiscono in modo estremamente pragmatico. Se sceglieranno di aiutare l’Italia vorranno delle contropartite”. Aprire oggi le porte al dragone è un’operazione non priva di rischi: “L’Italia si trova in una situazione economico-finanziaria di oggettiva debolezza. Il caso del porto del Pireo insegna: il rilancio del porto è stato accompagnato da esplicite richieste politiche al governo greco”. Quanto agli aspetti economici, il professore non si accoda alle critiche seguite alla decisione di Bankitalia di investire nello yuan, perché “il renminbi sta diventando una valuta di riferimento a livello internazionale e la diversificazione è il principio aureo di qualsiasi investimento”. Bisogna piuttosto fare attenzione a non cadere nella classica debt trap cinese, un’eventualità che avrebbe pesanti ricadute diplomatiche: “La strada è stretta. Da un lato l’Italia ha bisogno di acquirenti esteri del debito pubblico per fermare la fuga di capitali stranieri. Ma se i cinesi diverranno un acquirente privilegiato si porrà il problema della nostra collocazione internazionale, e del rapporto con gli Stati Uniti”. Insomma, se il governo italiano vuole aprirsi alla Cina deve farlo in punta di piedi per evitare di spazientire oltremodo l’amministrazione Trump. “Ci muoviamo fra Scilla e Cariddi” – conclude il professore – “Un tempo avevamo un vero talento nel farlo. Penso alla capacità dei democristiani di muoversi in Medio Oriente e di interagire con l’Unione Sovietica senza mai venir meno all’alleato statunitense. Ho l’impressione – spero che la storia possa smentirmi – che questa classe politica non abbia la stessa attitudine”.


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