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E se la forza di Pechino fosse fragile? L’analisi di Paolo Magri

Di Paolo Magri
xi jinping, trump dazi Xinjiang

La riforma costituzionale ha avviato il processo di accentramento del potere nelle mani di Xi Jinping, che avrà delle ricadute sui tre pilastri dell’establishment cinese: il partito, l’economia e l’esercito. Per quanto riguarda il primo pilastro, Xi era già diventato nel 2016, ancor prima della riforma, leader ideologico del Partito comunista. L’emendamento costituzionale, oltre a favorire l’inserimento del suo pensiero politico in Costituzione, lo porrà al centro della direzione partitica, facendo sì che il partito si identifichi completamente con il ruolo del leader.  L’economia, il secondo pilastro, diventerà sempre più plasmata dal vertice del potere, che ne assumerà il controllo e la direzione. In ne, il terzo pilastro, l’esercito, tornerà di nuovo alle dirette dipendenze del leader e del Partito. L’Esercito popolare di liberazione (Epl) era già, di fatto, controllato direttamente dal presidente e dal partito, tuttavia, prima dell’avvento di Xi Jinping si era tentato di renderlo più indipendente; un vero e proprio esercito dello Stato.

Con questa riforma si ritorna, di fatto, a un’epoca precedente. Detto ciò, alla domanda se questa riforma possa in qualche modo spingere la Cina a un ritorno all’era maoista si può tranquillamente rispondere con un fermo no. E per almeno tre motivi: il primo, quello più evidente, riguarda la leadership. Mao era venerato come un dio. Accentrava su di sé moltissime funzioni e ruoli, oltre a rappresentare l’essenza stessa della nazione. Xi Jinping non è nulla di tutto questo. La seconda ragione riguarda il sistema politico-istituzionale. Per quanto questa riforma annulli il limite dei due mandati, va comunque ricordato che il sistema istituzionale e partitico cinese è adesso molto più solido del passato. Di conseguenza, pur accentrando su di sé molti più poteri, Xi Jinping non potrà mai diventare il nuovo Mao, dato che il partito riesce ancora a esercitare un certo controllo sulla leadership.

Infine, l’ultimo elemento riguarda la società nel suo complesso. Pur essendo un popolo fortemente controllato, la società cinese sta cominciando a sviluppare una propria coscienza critica nei confronti dell’establishment. Molte azioni governative, infatti, seppur calate dall’alto, cominciano a essere formulate anche tenendo conto delle esigenze del popolo. Quindi un leader particolarmente forte come Xi non potrà più attuare, per intenderci, progetti politici particolarmente radicali del calibro della Rivoluzione culturale (1966-1976) o del Grande balzo in avanti (1958-1961) che hanno contraddistinto l’epoca maoista. Nonostante la Cina abbia intrapreso, negli ultimi trent’anni, una profonda rivoluzione istituzionale e sociale, i problemi che minacciano la sua crescita e la sua solidità nazionale sono sicuramente molteplici.

Il problema demografico, con effetti diretti sull’economia, sembra destare maggiori preoccupazioni. Ciò si può riassumere nell’espressione “China will grow old before it gets rich”, spesso utilizzata da molti analisti negli ultimi anni. Ossia, il grave problema demografico, se non gestito immediatamente, finirà per destabilizzare la Cina prima che possa raggiungere lo status di Paese ricco e industrializzato. Pechino sta investendo moltissime risorse per cercare di cambiare il proprio assetto produttivo. Ad esempio nel settore ambientale, affinché la crescita economica e la produttività diventino da un lato più sostenibili e meno nocivi per la società nel suo complesso e dall’altro aumentino la qualità dei prodotti alimentari e non. Tuttavia, la strada è ancora molto lunga, dato che riconvertire le industrie, passando dal carbone (risorsa primaria per la produzione) ad altre fonti, richiederebbe uno sforzo enorme sia in termini economici sia organizzativi. Una situazione che, in qualche misura, il Partito stesso cerca di cambiare molto lentamente, proprio per non intaccare il tasso di crescita economico che assume un ruolo centrale per il mantenimento della stabilità politica e sociale all’interno del Paese.

È vero che alla Cina, in passato, l’Occidente ha permesso moltissimo e questo in qualche modo ci si è ritorto contro. Ciò perché, dopo il programma di riforme e aperture da parte di Deng Xiaoping, faceva comodo all’Occidente, afflitto da problemi economici, avere un Paese così grande e in via di sviluppo con tassi di crescita a doppia cifra per oltre trent’anni. In questo modo sono stati sottovalutati moltissimi problemi di carattere produttivo e soprattutto culturale. La Cina, infatti, concepisce in maniera molto diversa la governance internazionale e difficilmente accetta quelle regole che rappresentano il frutto del sistema valoriale occidentale. Infatti, nell’immaginario collettivo cinese, l’Occidente fu proprio l’artefice delle più grandi umiliazioni inflitte all’Impero di Mezzo a partire dalla metà del XIX secolo fino alla fine della Seconda guerra mondiale.

Dall’epoca di Deng Xiaoping in avanti, quindi, la contraddizione di valori ha caratterizzato il rapporto tra Cina e mondo occidentale nel suo complesso. Una contraddizione culminata nell’adesione della Repubblica Popolare Cinese all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) nel 2001, nonostante fosse evidente l’assoluta mancanza di riforme strutturali interne a Pechino. Far aderire la Cina all’Omc senza spingerla a conformarsi a determinati princìpi istituzionali e commerciali è stato un grave errore. Trump, seppur in maniera poco strutturata, sta cercando di ribaltare la situazione per impedire che la Cina – con le sue pratiche di cyber-spionaggio e obbligo di trasferimento tecnologico imposto alle aziende americane che vogliono entrare nel mercato cinese – possa modernizzarsi alle spese dell’innovazione occidentale e, nello specifico, americana.

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