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Google e non solo. Così la lotta alle interferenze straniere fa passi avanti

Dopo anni di sollecitazioni da parte delle autorità e di polemiche tra mondo tech e politica, i colossi del Web sembrano aver preso molto più seriamente il tema della disinformazione online e lo stanno dimostrando a suon di azioni di contrasto all’insidiosa proliferazione di fake news.
Negli ultimi giorni, una serie di operazioni che hanno coinvolto alcune tra le piattaforme social più importanti al mondo segnano, infatti, un deciso cambio di passo (e sicuramente di percezione) nel modo in cui i giganti della Rete presidiano il dominio cyber.
L’ultima azione in ordine di tempo è quella vede protagonista Google, che nelle scorse ore ha annunciato di avere chiuso decine di canali YouTube ritenuti collegati all’Iran.

I NUMERI DELL’OPERAZIONE

Stando all’inchiesta condotta dalla società di Mountain View, gli account chiusi sarebbero legati all’Islamic Republic of Iran Broadcasting e risalirebbero almeno al gennaio 2017. Ad avere forzatamente chiuso i battenti – ha spiegato in un blog aziendale, Kent Walker, vicepresidente senior per gli affari globali della compagnia – sono stati 39 canali YouTube, sei blog su Blogger e 13 account sul social network Google+. I video caricati sui canali – si è calcolato – hanno registrato 13mila e 466 visioni negli Usa.

GLI ALTRI CASI

Come detto, quello di Google – che ha anche informato la commissione Intelligence del Senato Usa e le forze dell’ordine – non è però un caso isolato, ma si innesta in un nuovo attivismo dei colossi del Web nel contrasto al fenomeno delle fake news. L’annuncio della controllata di Alphabet segue infatti quello di due giorni fa di Facebook, che ha rimosso dalla sua piattaforma 652 pagine legate all’Iran e alla Russia. Lo stesso giorno anche Twitter aveva comunicato di aver fermato ben 284 account (in questo caso ritenuti collegati a Teheran) coinvolti in operazioni di manipolazione dell’opinione pubblica. Mentre il giorno precedente Microsoft aveva svelato una nuova ondata di campagne di phishing – condotte negli Paese ai danni di think tank e noprofit vicini ai repubblicani – che porterebbe la firma di Apt28, un famigerato gruppo informatico che molti addetti ai lavori collegano all’intelligence militare di Mosca.

GLI ASPETTI RILEVANTI

Tutte queste azioni, sottolineano gli addetti ai lavori, non risolvono certamente la questione della disinformazione online (di proporzioni ben più grandi), ma rappresentano il segnale che qualcosa è cambiato nel modo in cui la si affronta. Dopo un caso di grandissima portata come quello che ha coinvolto la società di data mining Cambridge Analytica – con il ceo e fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, costretto a riferire davanti al Congresso e al Parlamento europeo – i giganti della Rete provano ora a dare dimostrazione di maggiore collaborazione con le autorità e ad agire in maniera preventiva per evitare che si ripetano passate accuse, come quelle di essersi mossi male e tardi rispetto a problematiche note da tempo. Altro aspetto interessante è quello della collaborazione tra privati stessi, altrettanto fondamentale quanto quella tra pubblico e compagnie. Come accaduto per Facebook in questi giorni, infatti, la controllata di Alphabet ha detto di avere arruolato FireEye – gruppo specializzato nella cyber sicurezza il cui rapporto intitolato “Suspected Iranian Influence Operation” è accessibile online -, e consulenti vari per raccogliere e individuare alcuni account Google sospetti, mettendo fine a queste specifiche attività di interferenza.

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