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Innovazione, cosa manca all’Europa (e soprattutto all’Italia) secondo Ezell

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“Alcune decisioni, anche rilevanti, Donald Trump le sta assumendo, ma manca una strategia nazionale”. E ancora, sull’Europa e in particolare l’Italia: “Il motivo principale delle vostre difficoltà è il venture capital: finché non lo svilupperete in modo adeguato, continuerete ad avere problemi”. Stephen Ezell è il vicepresidente dell’Itif (acronimo di “Information Technology and Innovation Foundation”), una delle più autorevoli organizzazioni a livello globale sui temi della rivoluzione tecnologica e digitale, a proposito dei quali ha di recente promosso la nascita di un’alleanza internazionale – dal nome Gtipa (“Global Trade and Innovation Policy Alliance“) – formata da oltre 25 think tank indipendenti da tutto il mondo tra cui gli italiani Istituto per la Competitività e Competere. “L’innovazione è il meccanismo chiave che permette all’economia di crescere e di aumentare la produttività”, ha commentato in questa conversazione con Formiche.net Ezell. Che poi ha aggiunto: “Non a caso il nostro ministero del Commercio stima che l’innovazione tecnologica abbia contribuito per tre quarti alla crescita economica americana dalla fine della Seconda Guerra Mondiale”. In parole semplici dunque – secondo il vicepresidente del think tank di Washington DC guidato dall’ex consigliere di Barack ObamaRobert Atkinson – “l’innovazione non è nient’altro che la creazione di nuovo valore per il mondo. Con tutte le conseguenze positive del caso, a partire dal miglioramento delle condizioni di vita delle persone”.

Da quando si è insediato alla Casa Bianca che cosa ha fatto Donald Trump in questo senso?

La sua amministrazione ha assunto diverse decisioni, pure rilevanti, in materia di innovazione: ad esempio ha creato alla Casa Bianca una struttura interamente dedicata all’innovazione (si tratta del “The White House Office of American Innovation“, ndr) guidata da Jared Kushner mentre, qualche giorno fa, ha nominato Kelvin Droegemeier direttore dello strategico ufficio federale competente sui temi della scienza e della tecnologia. E ancora, tra le altre cose, ha iniziato ad approvare i primi provvedimenti su tecnologie specifiche, come l’intelligenza artificiale e ha rinnovato le policy per sostenere la trasformazione digitale e gli investimenti nel settore tech.

Ma c’è un però. Che cosa è mancato finora a Trump a suo avviso, anche rispetto a chi lo ha preceduto?

Barack Obama aveva varato una vera e propria strategia nazionale sui temi dell’innovazione con una serie di misure coerenti e coordinate tra loro. Trump, invece, ha sì adottato diverse decisioni, alcune delle quali anche significative, ma senza prevedere una strategia complessiva di respiro nazionale. Interventi pure importanti ma scollegati tra loro e privi, almeno apparentemente, di un disegno comune e più ampio. Ma siamo fiduciosi che possa intervenire in tal senso nei prossimi mesi.

L’Italia e l’Europa, invece, a che punto sono in base ai vostri studi?

Viste da questa parte dell’Atlantico, l’Italia e l’Europa dovrebbero incoraggiare maggiormente lo sviluppo di una cultura che sostenga l’ecosistema dell’innovazione. In sostanza devono lavorare sulle condizioni di contesto per far sì che coloro che vogliono investire, rischiare e innovare, possano farlo senza doversi imbattere in una serie infinita di ostacoli e problemi. Come molto spesso, purtroppo, succede ancora oggi.

Questo sotto il profilo, per così dire, teorico. Praticamente, invece, cosa ci manca ancora?

Il problema fondamentale è il venture capital: il mercato del capitale di rischio – in Italia in particolare – è troppo poco sviluppato e ciò rende molto difficile per le start-up innovative strutturarsi, organizzarsi, resistere alle difficoltà e poi crescere fino a diventare, perché no, imprese anche molto rilevanti per dimensioni e fatturato. Ma senza capitale di rischio tutto questo è quasi impossibile che accada (si veda a tal proposito anche questa recente intervista al vicepresidente della commissione Attività produttive della Camera Luca Carabetta, ndr).

Cos’altro?

Inoltre è necessario fare attenzione all’eccessiva regolamentazione cui tipicamente ricorrono i Paesi europei, Italia inclusa. Troppe regole, e pure complicate, opprimono l’ecosistema dell’innovazione che al contrario, per sprigionare tutta la sua forza e le sue potenzialità, ha bisogno di un sistema amministrativo e burocratico chiaro e semplice.

È una materia, l’innovazione, su cui a suo avviso l’Unione Europea dovrebbe intervenire più incisivamente?

L’Ue può e deve fare molto, in modo da incoraggiare e sostenere l’innovazione e le start-up ed evitare che vi siano Stati in cui fare impresa innovativa risulti eccessivamente difficoltoso. Anche perché una delle conseguenze di queste politiche restrittive è la fuga verso gli Usa di molte di queste start-up innovative ideate e pensate in Europa. Che per noi è un bene ovviamente, ma per il Vecchio Continente, di certo, no.

Nessuna regola oppure poche regole e chiare?

Quando diciamo che la regolamentazione non deve essere eccessiva e troppo complicata, non intendiamo affermare che non vi sia bisogno di strumenti di supporto, di regole che aiutino le start-up. Ma un conto è adottare provvedimenti che incoraggiano l’innovazione e tutt’altro conto è approvare una selva di norme che finiscono, inevitabilmente, con il limitare anche fortemente la capacità di queste realtà di crescere e svilupparsi.

Che cos’ha in mente da questo punto di vista?

Partiamo da un presupposto: l’obiettivo di una start-up innovativa non è diventare un’impresa medio-piccola di tipo tradizionale, bensì crescere, anche molto rapidamente, per diventare un grande azienda tecnologica. Di conseguenza i governi dovrebbero mettere in campo e sostenere politiche che consentano e facilitino questo tipo di sviluppo. Ad esempio in molti Paesi manca un quadro normativo che riconosca la particolarità delle start-up innovative e che le incoraggi nella loro attività.

Secondo lei perché? Tendenza alla conservazione, scarsa comprensione del fenomeno oppure cosa?

Entrambe le cose ma è un fatto che i governi spesso preferiscano tutelare le imprese tradizionali che già ci sono invece di supportare la nascita e poi l’organizzazione di nuove realtà. Che, ovviamente, di solito agiscono fuori dagli schemi consolidati, risultando in questo modo più difficili da capire e quindi sostenere. Ma occorre parità di trattamento, nella consapevolezza che le start-up innovative sono in grado di produrre benessere e lavoro, oggi e sempre più nel futuro.

 Ma non sarà che questo atteggiamento generale dei governi dipenda, almeno in parte, dalla convinzione che piccolo è bello e che quindi le start-up debbano rimanere come sono? 

Certamente, il tema della crescita delle start-up è senza dubbio collegato alla questione delle piccole imprese che in molti Paesi vengono ancora considerate, spesso in modo demagogico, il principale fattore di sviluppo economico e di creazione di lavoro. Ma non è così, come hanno scritto anche il presidente di Itif Robert Atkinson e Michael Lind nel loro recente libro dal titolo “Big is beautiful. Debunking the myth of small business“.

Perché non è così? Perché piccolo non è più bello?

Perché, dati alla mano, ormai sappiamo con certezza che le grandi imprese ottengono risultati sensibilmente migliori in termini di creazione posti di lavoro, di produttività e di innovazione, senza contare l’ammontare degli stipendi che di regola è più alto o le politiche di protezione ambientale che le piccole aziende hanno inevitabilmente più problemi a mettere in campo. Invece di inseguire un passato che non ritornerà, ci vorrebbero policy neutrali che incoraggino la crescita delle imprese, soprattutto di quelle ad alto potenziale innovativo.

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