Potrebbe davvero essere giunta al capolinea dopo quattro anni, l’avventura di Haider al-Abad come Primo ministro dell’ Iraq. Quattro anni difficili, in cui il presidente ha dovuto fronteggiare l’offensiva di Isis, le ambizioni indipendentiste dei curdi e la caduta del prezzo del greggio, il tutto cercando di tenere unito un Paese lacerato dalle politiche settarie del suo predecessore, Nuri al-Maliki, che avevano emarginato e oppresso la comunità sunnita irachena, considerata complice della dittatura di Saddam.
Nelle elezioni che si sono tenute a maggio, segnate da un record negativo di partecipazione (ha votato appena il 44% degli iracheni), la coalizione guidata da al-Abadi, Al-Nasr (la Vittoria), era arrivata solo terza. Tuttavia, il presidente filo-Usa aveva ancora la possibilità di emergere come un candidato di compromesso tra i tre blocchi più votati alle elezioni. Infatti, né la coalizione guidata dal chierico shiita Muqtada al-Sadr, la più votata in assoluto, né quella del filo-iraniana Hadi al-Amiri potevano vantare la maggioranza assoluta in parlamento, necessaria per nominare il primo ministro. Ecco che allora proprio al-Abadi sembrava potesse incarnare quella figura di compromesso su cui costruire un governo di unità nazionale, soprattutto alla luce del suo impegno nella pacificazione del Paese, compiuta cercando di colmare il divario tra la comunità sciita e quella sunnita. I mesi passati dalle elezioni però, dedicati al riconteggio manuale delle schede, reso necessario dalle accuse di brogli, potrebbero esseri stati fatali per il premier uscente.
Il Paese infatti, soprattutto le sue province sciite, dall’inizio dell’estate è stato agitato da forti proteste. Queste, che inizialmente avevano la forma di manifestazione caotiche, animate dalla frustrazione per la mancanza di acqua e energia elettrica, si sono progressivamente mutate in sit-in giornalieri contro la classe politica irachena. Il presidente, che nelle prime settimane aveva deciso di rispondere alle proteste con l’uso della forza, ha recentemente deciso di mitigare i toni, dichiarando legittime le istanze dei manifestanti e promettendo un immediato sollievo economico.
Le proteste hanno trovato la sponda di numerose figure politiche religiose, che si sono unite al coro di chi vede in al-Abadi il perfetto capro espiatorio per tutti i mali che affliggono l’ Iraq.
Secondo Tamer El-Ghobashy, capo dell’ufficio di Baghdad del Washington Post, “col tempo le proteste sono cresciute sino a diventare una condanna senza appello dell’intero establishment politico iracheno che ha guidato il Paese a partire dall’invasione americana del 2003”. I pretendenti al governo di Baghdad, e possibili competitor di al-Abadi, hanno fatto presto a comprendere la portata delle proteste e sono stati ben attenti a distanziarsene, arrivando a fare proprie le rimostranze dei manifestanti. Questo, spiega El-Ghobashy, “non ha fatto altro che puntare ulteriormente sotto i riflettori su Abadi”, assurto a solo responsabile per tutti i mali di Baghdad e dintorni.
Sadr, che non si è personalmente candidato alle elezioni, inizialmente aveva paventato l’ipotesi di poter appoggiare un nuovo governo a guida Abadi, sembra aver cambiato idea nelle ultime settimane, dichiarando che il nuovo primo ministro dovrà essere una figura indipendente senza precedenti esperienze governative, escludendo così automaticamente Abadi. L’Ayatollah Ali Sistani, una delle figure più influenti nel panorama iracheno, nel suo sermone del venerdì ha difeso i manifestanti e le loro istanze, attaccando direttamente Abadi: “Il Primo ministro si assume piena responsabilità per la performance del governo. Deve essere rigoroso, coraggioso e fermo nel combattere la corruzione – che la alla base della cattiva situazione in cui versa il Paese”.
La caduta in disgrazia di al-Abadi non è una buona notizia per gli Stati Uniti, che avevano puntato forte su di lui per continuare l’opera di stabilizzazione e di pacificazione in un Paese cruciale per lo scacchiere mediorientale. Allo stato attuale, è molto probabile a Baghdad possa instaurarsi un’amministrazione meno simpatetica con gli Usa e soprattutto più sensibile alle sirene che provengono da Teheran. Il leader sciita Sadr si è distinto a partire dal 2003 per la sua ferma opposizione alla presenza dei soldati Usa nel Paese, guidando persino le insurrezioni armate contro i soldati americani.
Oggi però, il chierico sembra aver abbandonato le posizioni smaccatamente filo-iraniane che lo avevano caratterizzato in gioventù, come dimostrano le sue dichiarazioni fatte in campagna elettorale e dopo le elezioni, che promettono di eliminare qualsiasi influenza esterna nel Paese, sia essa americana o iraniana e i contatti più intensi che sta intrattenendo con Riad. Tuttavia, esclusa la possibilità di appoggiare Abadi, l’unica soluzione rimasta sarebbe l’alleanza con Amiri, un candidato che ha ricevuto dall’Iran sostegno economico e militare. “Gli Stati Uniti hanno compiuto un errore nel premere così apertamente per un secondo mandato di Abadi – ha dichiarato Nussaibah Younis, esperto di Iraq per Chatham House, aggiungendo che Washington avrebbe fatto meglio a mettere l’accento sulle priorità per il Paese nei prossimi anni, senza focalizzarsi su una figura particolare. “Premere per la riconferma di Abadi era la via più facile per proteggere i progressi fatti in Iraq senza dover sobbarcarsi tutto il lavoro necessario per costruire una serie di alternative politiche”.
Abadi potrebbe ancora uscire vincitore dalla lotta tra i diversi blocchi che si sono presentati alle elezioni, ma facendo ricordare agli iracheni lo stato di disperazione in cui versava il loro Paese nel 2014, prima che iniziasse il suo mandato. Tuttavia, con il passare del tempo, le proteste che continuano a scuotere il Paese rendono questa possibilità sempre più esigua.