Per sfruttare appieno le opportunità date dalla crescita dell’economia digitale e per difendere in modo appropriato il Paese, l’Italia “deve fare delle chiare scelte in ambito cyber”. E queste, non possono prescindere dall’investire “in modo mirato e coordinato”, consentendo alle tante startup che si occupano di sicurezza informatica di accedere al mercato della Difesa. L’alternativa è quella di perdere, forse per sempre, il treno dei Paesi più avanzati.
A crederlo è Michele Colajanni, esperto di sicurezza informatica e professore ordinario presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Università di Modena e Reggio Emilia.
L’AUDIZIONE
Ascoltato ieri dalle Commissioni riunite Difesa e Attività produttive nell’ambito dell’esame della Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che istituisce il Fondo europeo per la difesa, il docente ha evidenziato alcune lacune dell’attuale sistema italiano e le contromisure da adottare per rimetterlo sulla giusta rotta.
UN’OPPORTUNITÀ DA SAPER COGLIERE
Per il docente, il fondo comunitario in questione – mirato a finanziare progetti di ricerca e a sviluppare il settore industriale della difesa europei – rappresenta infatti una grande opportunità per fare dei passi in avanti nel contesto cyber, ma che va colta non prima di aver posto rimedio ad alcuni problemi. “Siamo molto indietro in Europa in campo digitale, al 25esimo posto su 28 Paesi Ue. E non credo che recupereremo più il tempo perso in molti ambiti dell’hardware. Per quanto riguarda il lato software, invece, abbiamo molto da dire”.
Ma cosa deve fare l’Italia per far sentire la sua voce? “Al momento, in campo cyber, abbiamo da un lato poche grandi imprese e dall’altro tantissime micro imprese cyber, più piccole delle Pmi, che non riusciranno ad accedere al mercato della Difesa. C’è una barriera all’ingresso, forse anche giusta, per queste realtà. Come può ad esempio la Difesa rifornirsi da aziende che non possono assicurare adeguata continuità o che domani potrebbero essere acquisite?”.
Pertanto, rileva Colajanni, “è importante che le nostre big credano maggiormente nei nostri giovani, investendo in startup che domani potrebbero diventare ‘unicorni’, ovvero aziende che raggiungono un valore superiore al miliardo. Se le grandi aziende, che dispongono dei capitali, finanziassero le startup fornendogli un minimo di stabilità finanziaria, allora la Difesa potrebbe riporre fiducia in un progetto almeno di medio periodo. Non è pensabile”, ha aggiunto il professore dell’Unimore, “che Paesi molto più piccoli di noi riescano a fare ciò e noi no”.
PMI AL BIVIO
Per Colajanni, in questa azione di messa in sicurezza del Paese, tutto va di pari passo. Ad esempio, avere Pmi solide a livello di sicurezza è una precondizione per il successo di un’economia manifatturiera come quella italiana. “La Direttiva Nis impone determinati standard alle infrastrutture critiche. Nessuno”, ha rilevato, “potrà avere nella propria supply chain soggetti caratterizzati da scarsa sicurezza. Se l’italia non si adopererà per fare un salto di qualità”, ha detto ancora il professore, “anche le nostre grandi imprese nei settori del trasporto e dell’energia dovranno rinunciare ai servizi delle nostre piccole e medie imprese per rivolgersi altrove”.
LA DIFESA DEL KNOW-HOW
Altrettanto importante, ha rimarcato, è “importare” un concetto ancora poco diffuso in Italia: la difesa del know-how e dell’operatività.
“L’economia del mondo digitale si basa sulle idee e sulla proprietà intellettuale. Dobbiamo imparare a proteggerle e a valorizzarle. Per quanto riguarda la continuità operativa, lo scorso anno un ransomware come WannaCry ci ha dato un assaggio di quello che potrebbe accadere se fabbriche e compagnie varie restassero ferme. Provate a pensare che effetti devastanti avrebbe su un Paese produttore come il nostro”.
COME ORIENTARE GLI INVESTIMENTI
Gli investimenti più importanti, ha proseguito Colajanni, dovrebbero riguardare acquisizioni mirate, partenariati con imprese estere di fiducia, comunque soggette ad azioni ispettive se ci sono in ballo la difesa e la sicurezza nazionale. “Dovremmo adottare un modello simile a quello americano, che prevede in prima battuta un piccolo ma diffuso investimento destinato a diversi soggetti, da aumentare gradualmente e concentrare man mano verso quelle realtà che dimostrano di compiere avanzamenti reali”.
Se dovesse scegliere un investimento, il docente lo compierebbe “in sintonia con le caratteristiche di nostro Paese: qualcosa in congiunzione tra fisico e cyber”, il cosiddetto cyber-physical. “Sviluppare competenze italiane in questo settore ci renderebbe credibili”, ha sottolineato. Per fare ciò “è essenziale concentrare queste risorse, non disperderle in mille rivoli come accade oggi”. I fondi per la protezione cyber, ha aggiunto il docente, “ci sono, ma la falla è nel non averli ancora utilizzati in maniera sinergica e condivisa tra difesa, intelligence e università”.
L’IMPORTANZA DELLA FORMAZIONE
Essenziale in questo processo “e non per ragioni corporative”, ci ha tenuto a precisare Colajanni, “è il ruolo della ricerca e della formazione che, applicata alla Difesa, andrebbe rivolta su larga scala ad almeno 200-300mila persone”.
La chiave, ha sottolineato, “è investire in competenze che non solo vanno formate, ma anche trattenute. Abbiamo moltissimi giovani di valore che poi non trovano spazio nel nostro Paese e vengono subito presi, a condizioni economiche migliori, fuori dai confini nazionali”. Il tema non è solo tecnologico, ha concluso il docente. “Oggi le tecnologie ci sono, non è solo a quelle che dobbiamo puntare. Il vero valore aggiunto sono le idee e queste arrivano dagli uomini e in particolare da menti giovani e brillanti. Ed è su di loro che dobbiamo investire se vogliamo vincere la sfida dell’era digitale”.