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Perché all’Italia sfiduciata serve il coraggio di De Gasperi

È stato scritto in questi giorni che, in assenza di un De Gasperi, ci si potrebbe accontentare se “tutti coloro che a parole si richiamano ai valori, alle scelte e allo stile degasperiano fossero conseguenti nei fatti”. Prospettiva non semplice se già Luigi Einaudi commentava che “la maggior parte delle parole comunemente adoperate da uomini politici sono soprattutto notabili per mancanza di contenuti”. Eppure, nel 64° della scomparsa del grande statista trentino, che ha risollevato le sorti d’Italia così logorate dalla Seconda guerra mondiale al punto che allora a Napoli vennero scoperti casi di cannibalismo, è utile una riflessione sulle condizioni attuali e quelle in cui De Gasperi si trovò ad operare.

Il popolo chiamato a concorrere alla rinascita del Paese era animato da speranze e forte di energie giovani. Invece “a partire dagli anni 70 – avverte lo storico Philippe Jenkins – le società europee sono diventate sempre meno fertili e nello stesso periodo l’età media si è alzata anche grazie ai progressi della medicina: oggi 1/3 degli italiani ha più di 55 anni mentre in Nigeria la stessa quota non va oltre il 7 per cento”. Ai tempi di De Gasperi per le strade erano numerose le carrozzine con bambini, oggi assai rare, mentre si sono infittite le carrozzelle che trasportano persone anziane e invalide. La massa dei cattolici convergeva unitariamente nel partito della Democrazia Cristiana, animato da personaggi competenti, motivati e per lo più integerrimi. L’attivismo politico volontario e disinteressato era robusto ed efficiente. Nel tempo sono emersi purtroppo segni di deterioramento fino allo scoppio di “tangentopoli”, in ordine alla quale il filosofo Pietro Brini invitava i cattolici italiani a un severo mea culpa perché “nella crisi della nostra classe politica noi cattolici siamo tutti responsabili. Fra le diverse forme di cattolicesimo contemporaneo, quella dei nostri intellettuali, dei nostri giornalisti e dei nostri moralisti, tranne poche eccezioni, è forse la meno disposta ad assumersi le grane di un dissenso aperto e coraggioso”. Il quotidiano cattolico Avvenire negli ultimi tempi ha intensificato l’attenzione sull’impegno dei cattolici in politica. Ma una riaggregazione di coloro che potrebbero ispirare il loro impegno alla dottrina sociale cristiana è oggi assai problematico sia per la dispersione della loro presenza politica sia per l’assenza di personalità autenticamente dotate del necessario carisma.

La soluzione dei guai dell’Italia passano oggi in gran parte per Bruxelles. Ma l’Europa di oggi non è l’entità aggregante degli anni 50 . Il suo allargamento ha accresciuto le difficoltà di coesione. La solidarietà anche tra i suoi componenti storici è sopraffatta da egoismi nazionali, come avviene ad esempio con la condotta della Francia in Libia o con la riluttanza di tanti Paesi a farsi carico del problema dei migranti. Né il sostegno che può giungere dagli Stati Uniti è certo quello dell’era degasperiana, anche per il mutato ruolo strategico dell’Italia a seguito della evoluzione che il quadro internazionale ha subìto. La legittima “furia” degli elettori occidentali ha portato – ha scritto Beppe Severgnini – l’incompetenza al potere e l’incompetenza non viene percepita finché non viene messa alla prova. Esistono istituzioni, organizzazioni e meccanismi che fungono da ammortizzatori, ma fino a quando potranno reggere? Rabbia, amarezza, risentimento personale non risolvono i problemi del Paese. Ma se la “furia” è legittima, significa che è conseguenza di linee politiche inadeguate. Per di più, in un contesto dove ognuno dovrebbe avvertire la necessità di svolgere la propria parte (di sacrifici) “i diritti prevalgono sui doveri, sostituiti da crescenti pretese soggettive che arrivano ad offuscare gli obblighi di ogni cittadino”, secondo Alessandro Barbano.

Come se ne esce? Anche un De Gasperi oggi avrebbe il suo da fare, ma disporrebbe del coraggio di non pensare solo alle prossime elezioni, ma al futuro delle prossime generazioni. Con il supporto non della demagogia , ma di quella che Martin Bubber chiamava Bildung, cioè una formazione culturale che innervi negli uomini il senso di responsabilità. Che si avvale anche di simboli significativi, espressione di un sentire appunto responsabile ed elevato, presenti oggi quasi solo in negativo: si va dagli straccetti logori che dovrebbero, sulle pareti di edifici pubblici, esporre il tricolore nazionale, al degrado in cui venne lasciato il monumento di De Gasperi a Roma, fonte di sdegno espresso dalla figlia Maria Romana che rilevava come lo statista trentino avesse amato “il nostro Paese che spesso chiamava patria anche quando questo nome veniva dai più dimenticato o evitato, e che aveva dato coraggio al Paese anche quando la situazione economica sembrava perduta: in una occasione telefonò financo in America per avere del grano perché l’Italia disponeva pane per sole tre settimane”.

Giorgio Girelli, coordinatore Centro Studi Sociali “De Gasperi” di Pesaro

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