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Maduro resiste ai droni, ma la minaccia più grande è l’inflazione

Maduro venezuela

Erano le 17,41 di sabato 4 agosto a Caracas e il Presidente Nicolas Maduro stava tenendo il discorso conclusivo alla sfilata militare organizzata per celebrare l’81º anniversario della fondazione della Guarda nazionale bolivariana. All’improvviso, nei cieli della capitale caraibica un drone esplodeva proprio di fronte al palco presidenziale, seguita da un’altra esplosione di un secondo drone che si era alzato sul lato destro del palco, mentre un terzo esplodeva più lontano, scatenando il panico tra i militari schierati per la parata. La diretta televisiva riprende i primi surreali attimi del dramma per poi interrompersi bruscamente, giusto il tempo per inquadrare il volto, terrorizzato, della first lady Cilia Flores, subito scortata insieme al marito lontano dal luogo dell’attacco.

Ricomparirà solo tre ore dopo l’erede di Hugo Chavez, “Questo è stato un tentativo di uccidermi. Oggi hanno cercato di assassinarmi” dirà alla nazione, “e non ho dubbi sul fatto che tutto ciò porti all’estrema destra in Venezuela, alleata con l’ultra destra colombiana e che dietro l’attacco ci sia Juan Manuel Santos”. L’attentato è in realtà poco dopo rivendicato da un piccolo gruppo semisconosciuto, i Soldados de Franela (i soldati in flanella), tramite il loro account twitter, gruppo di “militari e patrioti”, che promette di ritentare per restauratore la diplomazia. L’autenticità del messaggio, come dell’intera vicenda, è però ancora tutta da verificare.

La cronaca di quelle ore – al netto del dibattito sulla veridicità dell’attentato, che qualcuno vede come un tentativo di creare un pretesto per un ulteriore giro di vite su quello che resta dell’opposizione –  restituisce l’immagine di un presidente debole, assediato, che a stento riesce a provvedere alla sua sicurezza personale. Un presidente sopravvissuto ad almeno due tentativi di ribellione armata e a mesi di violente proteste di piazza represse nel sangue, e che deve convivere con la crescente ostilità dei Paesi vicini. In Sud America, solo la Bolivia, Cuba e qualche staterello caraibico si dichiarano amici di Caracas.

C’è poi però l’altra faccia della medaglia. Negli ultimi mesi, mentre il Venezuela si sgretolava di fronte alla più grave crisi economica della sua storia moderna, Maduro, paradossalmente, ha visto la sua posizione rafforzarsi.

L’opposizione interna al regime è lacerata dalle divisioni, troppo debole per organizzare un tentativo credibile di sconfiggere la rivoluzione bolivariana. È vero, Maduro deve anche fronteggiare l’opposizione della chiesa locale e di ampie fasce della popolazione, ma ha saputo conquistarsi l’appoggio di chi il destino dei dittatori da sempre lo decide. L’esercito. I Militari in Venezuela gestiscono le maggiori industrie militari e petrolifere e controllano le regioni più ricche di oro, diamanti e coltan. Aumentando i salari dell’ersercito e guardando con occhio benevolo questa “economia ombra”, Maduro ha reso molto più profittevole per le forze armate appoggiare il regime piuttosto che tifare per un incerto ritorno alla democrazia.

“Oggi i servizi di sicurezza riescono a spegnere le proteste quando queste sono ancora in fase di pianificazione”, confida al New York Times Hebert Garcìa Plaza, un ex generale venezuelano che ha lasciato il Paese dopo che il governo lo ha accusato di corruzione. Le manifestazioni di piazza sono meno frequenti e si sono gradualmente depoliticizzate, in Venezuela di questi tempi si scende in piazza per avere acqua potabile ed elettricità, visto che i blackout elettrici e le sospensioni dei servizi idrici sono ormai all’ordine del giorno, anche nella capitale.

Inoltre, l’emigrazione costante che ha segnato gli ultimi anni del Venezuela potrebbe aver cambiato la demografia del Paese a vantaggio di Maduro. Tra i milioni di venezuelani che hanno lasciato il Paese per dirigersi in Colombia, Perù, Cile, Usa e Europa, ci sono moltissimi degli oppositori del presidente. Coloro che invece non hanno partecipato a questo esodo, hanno per lo più deciso di tollerarlo.

In questa situazione di crisi perenne e di fragili equilibri interni Maduro ha scelto di scommettere sulla disperazione e sullo sfinimento dei suoi connazionali e sulla collusione delle alte schiere dell’esercito per assicurare la permanenza del regime.

Un azzardo che per ora sta dando i suoi frutti ma che a lungo andare potrebbe non riuscire a garantire la permanenza al potere del delfino di Chavez.

Gli ultimi aumenti alle paghe dei militari, per quanto molto più consistenti di quelli degli altri lavoratori, non sono stati in grado di tenere il passo dell’inflazione, che secondo le stime del Fondo Monetario internazionale raggiungerà entro fine anno il 1.000.000%. Pochi, tra gli economisti, si aspettano che l’escamotage deciso dal governo di sostituire il bolìvar fuerte, l’attuale moneta, con il bolívar soverano, che avrà cinque zeri in meno, possa invertire la rotta. Almeno fino a quando il governo non affronterà il problema del crollo della protezione petrolifera, oggi ai minimi da 30 anni e da cui proviene il 96% delle entrate economiche del Paese. Russia e Cina, i due soli grandi Paesi non apertamente ostili al regime di Caracas, non sembrano, per motivi diversi, intenzionati ad accorrere in aiuto dell’alleato. La prima per mancanza di mezzi, la seconda perché scettica sui rapporti con il presidente venezuelano, che rischiano di compromettere quelli con Paesi ben più importanti dal punto di vista economico e commerciale.

Dove hanno fallito i droni, potrebbe riuscire quindi il default. Quando finiranno i bolivar per pagare i generali che permettono la sopravvivenza del regime, allora la parabola di Maduro potrebbe veramente giungere alla fine.

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