“Quale politica economica?”. Per capire, ripartiamo dai fondamentali. In democrazia, la “sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione“. (Articolo 1 comma 2 della Carta fondamentale). Il successivo esercizio presuppone un principio di delega fondato sui poteri del Parlamento e quindi del governo, che, a quest’ultimo, risponde. Il successivo articolo 67, che stabilisce l’assenza di ogni vincolo di mandato, esclude ogni dipendenza organica dal corpo elettorale. Nella Costituzione italiana esistono i rappresentanti del popolo e non i “portavoce dei cittadini” come vorrebbero i 5 stelle. Ma questo non può significare la definitiva cesura tra Parlamento e corpo elettorale.
La prima conseguenza pratica di questa complessa costruzione istituzionale riverbera sulle linee programmatiche che il governo è chiamato ad elaborare. Possono essere queste ultime la semplice ripetizione degli schemi logici-contabili appartenenti alle trascorse esperienze? Ossia a quelle praticate dal continuum Parlamento-governo appena sconfitto nelle ultime elezioni. Se così fosse, il corto circuito risulterebbe inevitabile. Ed il contrasto tra assetti istituzionali e volontà popolare raggiungerebbe un suo acme dalle conseguenze imprevedibili: fino alla possibile rottura costituzionale. Attenti, quindi, a vagheggiare possibili ritorni a Governi tecnici. L’eventuale crisi di questa maggioranza non può che produrre il ritorno ad elezioni.
Contestualmente esistono vincoli esterni di cui il governo deve tener conto. Sono di varia natura: istituzionali (rispetto dei trattati), finanziari (sostenibilità del debito) economici (livelli di competitività). La difficile arte del governo consiste nel navigare tra queste due sponde: consenso popolare e presenza dell’estero. Tra Scilla e Cariddi. Confini, tuttavia, che non sono fissi, ma mobili. Che si possono dilatare o restringere a seconda della sua capacità di convinzione. Che consiste nel presentare un programma credibile. In cui forza e ragione si possano combinare per avere entrambe la loro parte in commedia. Ciò che non è avvenuto in passato. E che oggi, seppure per ragioni opposte, rischia di ripetersi.
Ne deriva che riproporre varianti della linea deflazionistica, motivata dalla presunta necessità di contenere il debito, appare irrealistica. Come lo è del resto la scomposta agitazione muscolare. O, peggio, ancora il ricorrere ad improbabili ed irrealistiche minacce nei confronti dell’estero. O tentare di cancellare con un tratto di penna obblighi consolidati. Brexit qualcosa dovrebbe insegnare.
Il problema è, allora, capire se sussistono, come noi crediamo, le condizioni oggettive che rendano possibile una battaglia su due fronti. Che garantisca al popolo che qualcosa, rispetto al passato, è destinato a cambiare, onorando così il mandato elettorale. Ed, al tempo stesso, non ignori l’altro corno del dilemma. Quel rispetto che si deve nei confronti di chi ha la forza per condizionare dall’esterno l’evoluzione della situazione italiana. Profilo quanto mai delicato, quest’ultimo, come mostrano le recenti forti vendite dall’estero dei titoli del nostro debito pubblico.
Ma anche in questo secondo caso si può fare molto per tranquillizzare gli animi, sottolineando i punti di forza dell’economia italiana. I cui indicatori, a saperli interpretare, mostrano l’esistenza di una struttura economica che non teme la concorrenza internazionale, come indicano i dati positivi delle partite correnti della bilancia dei pagamenti. Che produce un risparmio interno talmente elevato da tracimare verso l’estero, non trovando all’interno le necessarie occasioni di investimento. Condizioni che richiedono il ricorso a misure di carattere non convenzionale, come furono quelle adottate da Mario Draghi per salvare l’euro.
Il tutto per ricordare che l’Italia non è la Grecia: pur con tutto il rispetto per questo piccolo Paese. In cui la cura da cavallo somministrata rispondeva agli eccessi precedenti che avevano profondamente destrutturato la sua economia. I problemi italiani sono profondamente diversi. Legati soprattutto alla mancata consapevolezza del proprio essere. Ed ad una classe dirigente incapace, nel passato, di farsene interprete. E per questa ragione di fondo spazzata via. Cosa che potrebbe nuovamente ripetersi se di quell’esperienza non si facesse tesoro.