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La vera sfida di Orbán e Salvini è politica e culturale. E non va sottovalutata

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Il nostro momento storico è tra i più rivoluzionari che si ricordino, almeno guardandolo da una prospettiva futura, ossia, per dirla con Dante, con gli occhi di coloro che “questo mondo chiameranno antico”.

Non soltanto le ideologie non sono sparite, ma esse sono tornate a dominare, ben oltre le campagne elettorali, tutte le diverse ed opposte visioni del mondo e della realtà contemporanee.

L’atteso incontro di ieri a Milano tra Salvini e il premier ungherese Orban ha seguito le facili previsioni che si attendevano: al fondo dell’intesa tra i due non vi è, infatti, una convergenza di interessi, una simpatia o un fiancheggiamento di circostanza, ma la condivisione di un’idea politica forte che va ben oltre i due protagonisti, chiamando in causa Visegrad, Marine le Pen, Alternative fur Deutchland e tutte le diverse forme di nazionalismo presenti in tutti i popoli e in tutti gli Stati del mondo.

Non è facile dire se è questo il ritorno di una destra rivoluzionaria o reazionaria, magari rivoluzionaria perché reazionaria, se sia l’origine della crisi di tutta la sinistra globale, oppure se è quest’ultima che ha fatto da volano alla prima; ma è sicuro che il motivo ideale trainante, opposto a quello che per decenni ha reso i progressisti dei monopolisti della Weltanschauung planetaria, è sostituita con la loro, relegando in un cantuccio, in una posizione di rimessa, gli eredi della Rivoluzione comunista.

Questo è quanto emerge dall’orgoglio con cui Orban ha stretto la mano a Salvini, e questo spiega il reciproco trionfalismo missionario con cui Salvini ha accolto Orban quasi come un archetipo del proprio destino.

Per dirla con Hegel, il mestiere degli intellettuali non è quasi mai quello di aprire nuovi mondi, ma, se va bene, di arrivare a fare troppo tardi una lettura valida dei vecchi, quasi sempre fuori tempo massimo.

Le frasi gridate alle manifestazioni di protesta contro il vertice sovranista dalla sinistra sono emblematiche: “Europa senza muri!”. Solo pochi anni fa nessuno sarebbe sceso in piazza per un’ovvietà del genere. Invece adesso essa non significa più niente, perché l’ovvio non è più tale, le casematte ideali su cui si è fondata l’assiomatizzazione valoriale delle nostre culture avanguardiste non è altro che un relativo e assai poco popolare punto di vista elitario e sorpassato.

Bisogna intendersi, tuttavia. Il progetto di smantellamento dell’Europa dei movimenti ultra conservatori non è una cancellazione dell’Europa, l’idea di ripartire dalle patrie e dalle nazioni non è un’invenzione di laboratorio necessariamente anti umana, guardare ad un’umanità di popoli differenziati non è per forza contro il complessivo dell’umanità.

Il problema semmai è lo svelamento del fallimento culturale non dei valori della sinistra, ma del modo in cui la sinistra ha pensato i suoi valori, li ha proposti come dottrina da predestinati, vi ha creato un progetto globale, il quale, in definitiva, si è infranto contro il muro della realtà, del consenso, della democrazia, della volontà opposta di tanti cittadini, della mentalità semplice invisibile delle masse.

Immigrazione, accoglienza, apertura cosmopolita sono categorie politiche che piacciono sempre meno perché coincidono con la percezione di un aggressivo e sistematico attacco a ciò che è proprio delle persone, a ciò che è ritenuto importante per tanta gente comune e rischia di svanire, di morire, di perdersi dentro il calderone del tutto uguale: proprietà, beni concreti e prossimi, vicinanza, affinità, e tradizione religiosa.

Lo scontro di socialisti e popolari contro i nazionalisti vede questi ultimi affermarsi sempre di più perché i primi hanno sbandierato universalismo, umanitarismo, anche valori importanti come resistenza antifascista, come grimaldello contro il particolarismo, il comunitarismo, l’orgoglio di scelte diverse, di scelte cha magari, perché no, sono perfino giuste, sebbene impronunciabili.

D’altronde, Karl Marx aveva profetizzato che l’istanza rivoluzionaria, matrice di ogni sinistra anche moderata, presuppone lotta, contrasto e superamento dell’esistente. Quello che non era stato previsto, invece, è che la storia non funziona così, che il superamento non si celebra mai, perché l’antitesi bipolare è insopprimibile. Giovanni Paolo II lo aveva capito talmente bene da alimentare la passione nazionale dell’Est contro la dittatura comunista, finendo per dileguarla come neve al sole in pochi anni.

E oggi fuori dalle Chiese, nonostante il Papa dica il contrario, i fedeli ripetono quello che dicevano i più conservatori cardinali al Concilio Vaticano II, i cosiddetti sconfitti: “La carità non è fraternità universale, ma amore personale per Dio e il proprio prossimo”. Il patriottismo è un valore cristiano, mentre il comunismo è ancora soggetto all’anatema e alla scomunica.

Oggi Orban e Salvini si trovano in una posizione favorita dal consenso che viene loro concesso dalla propria visione ideologica di destra, corroborata dal fallimento oggettivo della sinistra, tutto chiacchiere e potere.

La loro partita vera tuttavia inizia adesso. Dimostrare al mondo che Stato, patria, identità nazionale non sono valori disumani, non disegnano una prospettiva unicamente decostruttiva, che non relega necessariamente nelle tombe sottomarine interi popoli. Questa è loro sfida più ardua.

Se l’idea di umanità è il baricentro teologico e politico della filosofia tradizionale, essa non si contrappone ma si fonde con l’idea di comunità. L’anti individualismo non è la soppressione dei diritti individuali, ma il baricentro con cui nella società particolare l’individuo diventa persona, cittadino che vive in relazione concreta e solidale con i suoi connazionali. L’umanità non svanisce con il ritorno della centralità dei singoli popoli, ma si realizza in essa.

I sovranisti devono dimostrare, insomma, che la soluzione conservatrice è un nuovo ordine mondiale, è una cultura che ha una sua dignità, dove umanità e nazionalità si rafforzano insieme, come popolo e persona, senza contrapposizione, e non un principio generatore di disordine e morte, dove ogni singolo popolo confligge con gli altri: questo oggi Salvini, Orban e gli altri devono provare.

Se ci riusciranno, allora un capitolo nuovo si riaprirà anche nella lettura complessiva della nostra civiltà.

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