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Tiratina d’orecchie di Polillo a chi sottovaluta l’effetto turco per l’Italia

Logica specifica dell’oggetto specifico: come si sarebbe detto nel bel tempo andato. Chiunque, per convinzione preconcetta o altro, stressi un solo fattore rischio, con ogni probabilità finisce fuori strada. Prendiamo ad esempio il problema del debito. Quello in mano agli stranieri è pari a circa il 53 per cento del Pil. Ma quello pubblico – croce e delizia di tanti osservatori italiani – è pari a meno del 30 per cento. Magari lo avessimo noi.

In Turchia il quadro è reso complicato dall’iterazione di fattori economici e finanziari con il contesto più squisitamente politico. Da anni, Erdogan cerca di giocare su due tavoli: la Nato e l’Occidente da un lato, la Russia di Putin dall’altro. Ed, al tempo stesso, in alleanza con l’Iran, cerca di partecipare allo smembramento degli equilibri politici, che risalgono agli accordi di Sykes-Picot. Quando francesi ed inglesi, dopo la scomparsa dell’Impero ottomano, si divisero quell’immenso territorio, così ricco di petrolio. Pur dovendo pagar pegno (il red line agreement) alle grandi compagnie americane.

Considerato il tatticismo sempre più esasperato di queste posizioni, forse non era il caso da parte di Erdogan di sfidare ulteriormente Donald Trump a proposito di Andrew Brunson. Il pastore protestante americano, imprigionato dal 2016 con l’accusa di essere un sodale del predicatore islamico Fetullah Gulen, il suo nemico pubblico numero uno. L’improvvisa decisione americana di raddoppiare i dazi d’importazione sull’alluminio e sull’acciaio turco, aveva anche una motivazione economica (la svalutazione della lira), ma ha anche risentito dell’ennesimo rifiuto nei confronti di un vero e proprio ultimatum lanciato per ottenerne l’immediata liberazione.

Episodi più immediati. Che si sono tuttavia innestati sulla crescente debolezza strutturale dell’economia turca. Di cui lo stesso Erdogan non era, forse, del tutto consapevole. Prima della crisi del 2007, la Turchia cresceva ad un ritmo maggiore rispetto alle altre economie emergenti. Dagli inizi degli anni ‘80, nel 2006, il differenziale cumulato era di circa 30 punti. Nei dieci anni successivi, invece, un’inversione negativa di circa 10 punti. Segno evidente che i mercati internazionali avevano cominciato a prendere le distanze. Ed in effetti, gli investimenti esteri, che nel 2007, erano stati pari ad oltre 22 miliardi di dollari, erano progressivamente declinati, fino a dimezzarsi: meno di 11 miliardi nel 2017.

Varie, ovviamente, le cause. Ma non è certo da sottovalutare il deficit persistente delle partite correnti della bilancia dei pagamenti turca. Con forti oscillazioni di anno in anno, ma negli ultimi anni in media pari a circa 50 miliardi di dollari. Con un’incidenza media sul Pil variabile tra il 3 e 5 per cento. Dati che raccontano di come l’investimento estero non si ripagasse con un surplus commerciale. Ma fosse prevalentemente rivolto a soddisfare la domanda interna. Con una forte prevalenza dei consumi pubblici e privati, rispetto agli investimenti.

Schema comprensibile. Con un regime, come quello di Erdogan, impegnato in una costosissima lotta su due fronti. Quello esterno per riaffermare i suoi diritti di potenza regionale nei confronti dei suoi vicini. E quello interno per consolidare le proprie basi di consenso, nella progressiva trasformazione della vecchia Repubblica di Ataturk nel nuovo regime sempre più islamico. Un equilibrio precario fin dall’inizio, ma destinato ad implodere all’indomani del fallito colpo di stato. Quando insieme alla dura repressione contro i suoi oppositori, Erdogan è stato costretto a maggiori elargizioni nei confronti dei propri supporter.

Ecco cosa scrive l’Fmi, nella sua tradizionale ricognizione annuale (article IV): “Forti stimoli fiscali ed una politica del credito espansiva hanno spinto verso l’alto consumi ed investimenti nel 2017. Anche le esportazioni sono fortemente cresciute, ma il picco delle importazioni nella seconda parte dell’anno ha ridotto il contributo dell’estero alla crescita del Pil”. Evidenti – continua il rapporto – “sono i segni di un eccessivo riscaldamento congiunturale: in termini di output gap, con un’inflazione ben al di sopra degli obiettivi ed un deficit del saldo delle partite correnti sempre più ampio”.

“Nel frattempo – insiste l’Fmi – la politica fiscale diveniva sempre più espansiva. Facendo aumentare il deficit di bilancio a causa di una riduzione del carico fiscale, di maggiori sussidi salariali ed incentivi all’impiego. Grazie soprattutto ad una dilatazione dell’intervento pubblico in grado di offrire garanzie statali per i prestiti bancari”. Il tutto spinto al parossismo, finché la debole struttura della lira turca non ha cominciato a cedere perdendo terreno nei confronti delle altre valute.

Se questo è quanto avvenuto c’è quindi da riflettere. Come già sta facendo Giancarlo Giorgetti. Certe analogie programmatiche con la vicenda italiana sono più che evidenti. Che poi Luigi Di Maio cerchi di esorcizzare questo fantasma è cosa che ci può stare. Ma se qualcuno pensa di poter dare fondo al surplus delle partite correnti della bilancia dei pagamenti italiana, per poter alimentare il grande falò dell’assistenzialismo, invece di puntare sul rilancio degli investimenti e la riduzione del carico fiscale, deve sapere a cosa va incontro.

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