L’Italia è oggi attanagliata in una grave crisi che è finanziaria, economica, industriale. Ma è soprattutto una crisi morale, culturale e politica.
Tra poco, finirà il Quantitative easing della Banca Centrale Europea. Finiranno quindi le chiacchiere, di destra come di sinistra, sul sostegno alle povertà. Che le classi politiche recenti hanno creato, con ignoranza pari alla improntitudine.
Tale operazione finanziaria, lo ricordo, ha permesso l’acquisto, sul mercato secondario, di ben 2400 miliardi in titoli dell’intera Eurozona, con l’Italia che ha risparmiato ben dieci miliardi di euro l’anno per il pagamento degli interessi sui suoi titoli, dagli 80 miliardi prima del Qe agli attuali 70, che sono stati resi tali con gli acquisti da parte di Francoforte, dei titoli italiani che però oggi passano da 12 a 3,5 miliardi. Come fare? Farete un meet-up sulla Rete, ascoltando chiunque?
Il debito pubblico italiano, che pure è ancor oggi sostenibile, potrebbe però non esserlo più, in una situazione in cui la Bce cessasse il suo programma di acquisto dei titoli. E se ciò non creasse reazioni razionali sulla Banca di emissione italiana e, quindi, sul governo.
L’eccesso di debito non è una cupa invenzione di quella maga cattiva che si chiama Unione Europea, ma una colpa gravissima delle classi dirigenti italiane che si sono avvicendate al potere, dagli anni ’80 ai nostri giorni. Le giustificazioni ci sono, ma si devono evitare i risultati pericolosi, che oggi sono stati semplicemente scaricati sulle nuove generazioni e sui titolari del nostro debito pubblico. Che è ormai in gran parte “nazionalizzato”, la quota di detentori dei titoli è ormai al 45% in Italia.
Si potrebbe fare come in Giappone, quindi, ma dubito che il governo attuale, a parte l’amico Paolo Savona, sappia come si fa.
È la regola dell’uno vale uno come purtroppo immagino.
Certo, c’era, nel secondo dopoguerra, da costruire il welfare state, ma l’abbiamo fatto, e bene, perfino in una fase di recessione mondiale, dal 1970 in poi, e mentre invecchiava il nostro sistema produttivo.
Oggi, la situazione è la stessa: crisi produttiva, alto costo dello Stato, la sua crisi fiscale, una bassa efficienza delle amministrazioni pubbliche, poi la crisi del welfare, proprio mentre aumenta la povertà e il disagio di tanta parte del nostro popolo.
Crisi del welfare che è, da un lato, indotta dalla bassa produttività media e, dall’altra, da un attacco globale dei nuovi business allo Stato Sociale come l’abbiamo conosciuto tutti, dall’accordo sulle pensioni di Bismarck e de Lassalle, del 1848, da parte delle nuove imprese che lavorano, indovinate? Sul world wide web.
E l’attuale governo deve stare bene attento a non aggravare la nostra situazione debitoria, siamo alla fine della pazienza finora mostrata dai mercati. Le conseguenze saranno terribili.
L’Europa non è quindi un gruppo di amici in gita, è un insieme di Paesi in feroce concorrenza tra loro. Che usano una moneta che sta sulle scatole agli Usa, l’euro, per proteggere i loro mercati interni, ancora molto ricchi. E sarà per poco.
L’euro è però proprio ciò che ci ha “coperto”, sul piano del debito pubblico, prima dello scoppio della crisi dei subprime. Certo, si tratta di una moneta malfatta, ma le monete perfette non esistono. Forse lo era il sesterzio romano, che però sembrava il dollaro.
Se quindi abbandoneremo l’Europa, non avremo più una protezione finanziaria adeguata, in un mondo di grandi aree monetarie e di cicli finanziari almeno continentali. Non avremo scudi, sia pure ambigui. Nulla, oggi, ci fa poi pensare che l’attuale governo possa risolvere questa situazione.
Troppo dilettantismo, molta superficialità, una colossale ignoranza che si rivela in molti dei suoi dirigenti nazionali; e questo vale, purtroppo, sia per l’attuale governo che, anche, per l’opposizione. È come se il governo nazionale si fosse ristretto ad un consiglio comunale, ma di quelli tipici delle vecchie “zone disagiate”.
Altro che “uno vale uno”: mai come oggi occorrono tecnici di livello internazionale, politici sapienti, uomini di cultura vera e non dei semplici ripetitori di slogan maldigeriti.
Invece delle ingenue rimasticature russoviane, occorre oggi evitare ogni tentazione barbaramente egualitaria e affermare chiaramente una cosa: che occorrono uomini speciali per risolvere problemi insoliti.
Per non parlare di un gruppo politico al potere che è, di fatto, di proprietà di una società di consulenza. È costituzionale? Io non lo credo. Ma immagino che qualche “amico” di questo Movimento lo avrà schermato contro simili azioni, sempre possibili. Mai la storia politica italiana aveva verificato questo scandalo e un tale paradosso.
Mai come oggi la classe politica italiana si è dimostrata così inetta, ignorante, dilettantesca. Perché? È semplice, in fondo. La causa di tutto ciò è stata l’operazione che poi si è chiamata “Tangentopoli”, ma dopo la crisi della fine degli anni ’80, nessuna leadership è stata all’altezza della situazione.
L’Italia è stata posta, da quel momento in poi, ai margini; e quindi bastavano, qui da noi, classi politiche da Terzo Mondo. L’Italia, finita la guerra fredda, è diventata un piccolo paese, un “povero paese che è anche un paese povero”, come diceva de Gaulle.
Ma oggi è senza strategia, senza idee di lungo periodo, senza una politica estera e senza una vera e propria “linea” economica.
La narrazione di questa operazione è stata la retorica della “casta”, come se le classi dirigenti, ovunque nel mondo, non godessero di ovvi e naturali privilegi, in proporzione diretta alla loro pesante responsabilità.
E erano solo i politici, la “casta”? Oppure c’erano, nel mazzo della retorica castale, giornalisti, professori universitari, avvocati, magistrati, diplomatici, grand commis d’État, e molto altro? La distruzione della politica è stata quindi realizzata scientemente: non lo diceva anche Craxi, “dopo di noi verranno i lupi della finanza”?
E, certo, non si risolve questo problema con l’”uno uguale uno” o il mito, provinciale quant’altri mai, della Rete, del world wide web.
L’attuale governo non è la cura, ma il prosieguo della malattia che ha colpito l’Italia alla fine della guerra fredda. E non ne usciremo con i tentennamenti, le ambiguità, i luoghi comuni che sorgono, ogni giorno, da questa maggioranza e da questo governo. Che non ha cultura di riferimento. La politica è la derivata prima della cultura, ricordiamolo.
Senza il “Codice di Camaldoli”, per esempio, non ci sarebbe stato il Welfare State cattolico, ma con l’aiuto straordinario dei laici, che portò l’Italia, dopo una guerra tragicamente persa, a vincere con la nostra Lira l’”Oscar della Stabilità” monetaria; e a superare, nel 1959, il numero di addetti nell’industria rispetto a quelli dell’agricoltura, poi a varare il “minimo sindacale”, mentre veniva organizzato, sempre nel 1959, il primo corpo di Polizia Femminile.
Altro che il metoo dello snobismo femminista statunitense, qui si parla di lavoro, di stipendi, di funzioni che venivano conferite alle donne; e in Polizia. E presto arrivò anche l’estensione erga omnes dei contratti di lavoro collettivi. Ecco, quella era l’Italia che cresceva perché aveva una classe dirigente eccellente e una politica stabile.
Se quindi si guarda tutto con l’occhio della “casta”, non si capisce nulla della recente storia d’Italia. Né si risolvono i suoi problemi, derivati proprio da un assalto alla diligenza governativa, che è antico, da parte di demagoghi di scarso rilievo. Ma era, quella, una casta che studiava e applicava, creativamente, un progetto politico che era, soprattutto, culturale. Dove è oggi la cultura politica della attuale compagine governativa?
Forse, per la Lega, ci sarebbe l’amico perduto e amato Gianfranco Miglio, ma lui era un cattolico vero, molto legato a Cossiga, oltre che lettore attento e creativo della tradizione giuridica e politologica del conservatorismo tedesco, la splendida stagione della Konservative Revolution e della Ragion di Stato franco-prussiana classica. Dove è quindi la radice sapienziale, culturale, teoretica dell’agire di questo governo?
E non crediate che, qui, mi ponga domande inutili o oziose. Tutt’altro. Senza cultura profonda, la politica è solo accordo temporaneo e debole tra interessi divergenti. E quindi non conta nulla, come accade, appunto, oggi.
Io voglio ancora che la politica, quella vera e coltissima di Cossiga, Craxi, la Malfa, Spadolini, Malagodi, Aldo Moro e tanti altri riviva nell’Italia, terra senza ragione e senza criterio, che vedo ogni giorno. È possibile, basta volerlo, senza elezioni più o meno farlocche sul world wide web.
C’erano, fin dall’inizio, nel 1943, fin dall’inizio, i cattolici con lo straordinario “Codice di Camaldoli”, poi i repubblicani, con il compianto Ugo la Malfa, con il suo keynesismo intelligente e critico studiato in Usa, infine i liberali che difendevano, ma con equilibrio, la poca impresa privata che c’era in Italia allora, i cattolici che disegnavano il nuovo Welfare State che era compatibile con i limiti finanziari dell’epoca, senza i disastri futuri del rapporto debito/Pil.
Che nacque, come temporanea necessità, da un problema impellente: evitare la crisi finanziaria finale, quella successiva al ’68, ma solo con gli investimenti pubblici, nella fase in cui tutta l’Ue crollava e c’erano le liberalizzazioni, obbligate da una nuova configurazione del mercato-mondo. Fece bene, chi governava allora, a risolvere la crisi dei primi anni ’80 con la spesa pubblica, ma fu il canto del cigno della nostra classe politica.
Le grandi imprese poi crollavano, in preda ad un capitalismo familiare spesso inadeguato. Sì, certo, lo Stato faceva i panettoni, come dicevano degli incompetenti umoristi economici, ma era giocoforza. E non solo per dare lavoro agli operai, ma per dare mercato a prodotti ancora validi. Poi, le liberalizzazioni. E voi, nuovo governo, siete in bilico tra vecchie statizzazioni e liberalizzazioni di antico stampo. Le Autostrade, certo che le conosco benissimo, ne sono stato il presidente per lunghi e fecondissimi anni.
Ho dovuto accettare lo status quo delle liberalizzazioni fatte male e a prezzo di realizzo, ma io ho salvato la società Autostrade per l’Italia da una svendita. La classe politica ha smontato il suo rapporto con le industrie di Stato ricreando una relazione preferenziale tra le nuove aziende privatizzate, spesso tardi e male, e i partiti politici. Ognuno ne aveva una, mentre prima tutti concorrevano, in quota elettorale, comunisti compresi, a spremere i soliti oligopoli o monopoli pubblici.
Non è cambiato nulla, nella sostanza. E sono stato proprio io a fare in modo che la “bolletta” della nuova società di gestione fosse ragionevolmente elevata e accettata dal commissario Ue di allora. Il che non era affatto ovvio, anzi.
Poi, la politica ha fatto il resto. Ma se pensate, cari ragazzi al governo, che basti una chiacchiera o una damnatio memoriae per gestire le situazioni, siete proprio fuori strada.
Le scelte si fanno con cognizione piena delle cause e degli effetti, non con slogan da lettori disattenti della attuale e spesso disinformata pubblicistica sui “potenti boiardi di Stato”.
E come credete che si governi un Paese? Lo ha detto già Machiavelli, cum le parole non si governano gli Stati. Il fatto è che il potere dell’Occidente ha una nuova configurazione, che dovreste studiare senza essere rapiti dalle pretese magie della Rete, o della democrazia diretta, che funziona solo in alcuni piccoli cantoni svizzeri di alta montagna. C’è la Politica, diffamata e resa zimbello di operazioni di defamation ben architettate, che viene resa inutile per non decidere sulle cose che contano davvero.
Poi c’è il deep state, che comanda la politica, lo vedete con Trump e le sue peripezie su quella sciocchezza, male architettata dai Servizi Usa, del suo rapporto con “i russi”. Poi ci sono le grandi imprese multinazionali, che se ne fregano sia della politica che dello “stato profondo”. E voi credete di risolvere con una comunicazione on line questioni così complesse? Beati voi. Tutto è stato venduto, in Italia, con le famose privatizzazioni, ci ritorno; e spesso a prezzi di realizzo.
Dal primo gennaio 2008 ad oggi sono stati venduti a gruppi stranieri oltre 550 marchi di rilievo del nostro made in Italy, con oltre metà delle aziende italiane quotate in Borsa che sono oggi proprietà di imprese straniere.
Le Pmi, sono invece attualmente 760mila, ovvero il 76% di tutte le aziende italiane, Pmi che crescono in media del 5,6% l’anno. Ci vorrebbe, ve lo suggerisco, una Banca delle Pmi che fosse pubblico-privata, e che accettasse come titoli a sconto i debiti generati dalla pubblica Amministrazione, o che utilizzasse bene i titoli del debito pubblico eventualmente concessi alle Pmi, dallo Stato, per saldare, almeno parzialmente, i suoi debiti.
Ci vorrebbe anche un sistema bancario meno esterovestito che facesse gli interessi di questa straordinaria rete di Pmi, dove spesso ci sono “padroni” che si tassano per pagare gli operai o, peggio, che si suicidano per non essere riusciti a salvare la loro Ditta.
Pmi senza protezione, shopping in Italia dei nostro concorrenti Eu e non in quello che rimane delle grandi aziende italiane, l’osso durissimo del nostro progetto di sviluppo, quello del “Codice di Camaldoli” e della tecnocrazia cattolica (e laica) che prese il potere dopo la Sconfitta, quando tutto era perduto, anche l’onore.
Fra poco ci sarà la fusione tra Societé Générale e Unicredit, voi cosa ne dite? Sarà o non sarà la cessione alla Francia della nostra ancora straordinaria raccolta bancaria, cosa che in Ue non accade più? Qui non c’è nessuna possibile leggerezza dei tipo “uno uguale uno” che possa rimanere in piedi.
O si ha a che fare con tecnici veri, oppure ci si fa fare la pipì addosso dai nostri concorrenti strategici. Come accadde infatti nel 2011 con le operazioni, prima francesi e poi britanniche e Usa, in Libia. O ci adeguavamo, oppure bombardavano anche i nostri pozzi di petrolio. Una totale resa strategica, politica, dell’onore.
La fine della Prima Repubblica ha causato quindi la cessazione, anche, della dignità nazionale. Che è il primo carburante dello sviluppo economico.
Pensate, solo per un attimo, a Enrico Mattei. Che fece la politica mediterranea e energetica che il fascismo non aveva saputo o potuto fare, servo come era del Terzo Reich.
E oggi, quindi, quale politica estera?
Il ministro dell’Interno attuale pensa solo alla migrazione illegale dal sud e dall’est. Certo che lo deve fare, ma la sicurezza nazionale è una cosa molto più grande di tanti barconi. Che pure è un problema importantissimo, è ovvio.
Ma a quale sicurezza nazionale si sta pensando avverso il terrorismo jihadista?
Quale linea nel Medio Oriente, nella Giordania in crisi, con Israele che sta ridisegnando la Siria, con la Turchia in preda alla crisi della sua valuta e alla successiva, probabile, de-dollarizzazione?
Quale politica poi nel Maghreb, a parte che la Libia non è solo la sponda dei “barconi”, ma un partner finanziario, strategico, militare e politico da riconquistare, dopo la guerra “all’Eni” di Sarkozy?
Ecco, sarebbe bene che la politica estera non fosse fatta di idee fisse e di aree troppo vicine, ma di sostanza e di credibilità.
A proposito, se mancherà lo scambio tra “sconto” europeo sui nostri bilanci e l’accettazione delle migrazioni dal Sud, che hanno mille fondamenti pericolosi, accuratamente gestiti da alcuni Paesi europei e non, come faremo? Siamo così certi che verrà in aiuto qualcuno, uno di quelli che nelle teorie del management si chiama “cavaliere bianco”?
E quanto credete che costerà? Non crediate che arriverà l’America di Trump o il Patto di Višegrad o la Cina di Xi Jinping, che ha un calcolo degli interessi strategici elaborato al millimetro. E fanno bene, naturalmente. Lo facessimo noi. Non arriverà nessuno. Credetemi.
Perché, malgrado la buona volontà e il prestigio personale di alcuni dei vostri ministri, mancano i “fondamentali”. Ovvero la razionalità del dare e dell’avere.
Lo so bene che questi sono equilibri che non si insegnano al Sant’Anna di Pisa, o in qualche meet-up nella “magica” Rete, ma sono quelli che ci sono da sempre; e su cui i leader mondiali fanno conto da sempre.
Non si insegnano però in qualche master, ma c’è la vita di tanti vecchi dirigenti e commis d’État che la insegna e la trasmette, da bocca a orecchio.
Qui si configura anche la questione Ilva. Se si tratta di illeciti penali o civili, certo dovranno essere verificati, ma intanto l’azienda deve essere messa in condizioni di sicurezza. Non importa molto chi sarà il prossimo “padrone”, ma importa moltissimo che l’azienda continui a lavorare tanto e bene.
Ci sono i soldi per nazionalizzarla? Non lo credo, ma se ci fossero, fatelo subito e bene, nominando manager che non siano della razza di “uno uguale a uno”.
C’è poi la questione dei porti, dove noi siamo ormai fuori concorrenza rispetto alle strutture del Nord, che manipolano gran parte delle merci Ue.
E noi? Niente. Siamo qui a creare sostegni sociali per le città portuali più povere, come Livorno e, tra poco, perfino Gioia Tauro, che potrebbe invece essere una vera e propria perla economica del Mediterraneo. Come si possa quindi fare politica industriale con una rete di Pmi e senza “campioni nazionali” lo sa solo Dio.
E infatti, non vi è, in Italia oggi, alcuna politica industriale e d’impresa, a parte qualche stanco rétore delle privatizzazioni, fatte solo per gli amici, ma con gli amici. Ecco, se sarete meno peggio di come oggi vi immagino, potreste creare un Fondo per la nuova impresa, per creare campioni nazionali credibili. E qui non basta la Cassa Depositi e Prestiti. Se non volete affondarla, lasciatela fare il suo mestiere e non coinvolgetela in operazioni extra muros. Troppi azionisti esteri, oggi, in Cdp, che rispondono al loro potere politico, che però sa cosa fare. L’Iri, se la volete rifare, e guardate bene le norme europee, va quindi ricostruita ab imis.
Potreste ricrearla con un consorzio di banche, ma i nostri istituti di credito non sopporterebbero la pressione. Un panel di investitori esteri a lungo termine? Bene, fatelo. Ma sarà difficilissimo.