Quella che in queste ore ci viene presentata come una polemica tra i ministri Trenta e Salvini probabilmente non lo è. Siamo in un momento in cui ogni mezza frase, detta o sussurrata, viene utilizzata per dimostrare che l’armonia in seno alla strana coppia Lega –M5S diventa ogni giorno più precaria. Sarà anche così, ma, almeno in questo caso, un osservatore benevolmente imparziale potrebbe anche affermare che i due ministri stanno parlando di cose diverse, e che tutti e due hanno ragione.
Salvini, in effetti, sa bene di non poter chiedere uno status quo ante, ed infatti non lo chiede. Cerca solo di dare spazio a voci che chiedono qualcosa di alternativo al nulla che oggi lo Stato chiede ai giovani, e che in molti casi nemmeno le famiglie, che, assieme alla scuola, avrebbero il compito primario dell’educazione, riescono più a compensare. Sono in molti, infatti, a ritenere che le carenze educative, comportamentali e motivazionali di una parte dei nostri ragazzi potrebbero essere corrette dalla disciplina di un salutare servizio obbligatorio, dove imparerebbero a conoscere non solo diritti – chiodo sul quale il martello dei media continua a battere ogni giorno – ma anche i tanti doveri. È questo ciò che, nella sostanza, ha cercato di esprimere il ministro degli Interni.
Ma è un problema complesso, che va ben oltre qualche mese di servizio militare e che richiede quindi cure altrettanto complesse. Il male denunciato esiste, è profondo e investe tutta la struttura sociale. Riparare cinquant’anni di distruzione sistematica dei valori fondanti la nostra cultura e la nostra civiltà richiede tempo, supposto che ci sia davvero la volontà di farlo, ed attenzione continua. In primo luogo, e questo costerebbe poco, occorrerebbe dismettere l’ipocrita pratica quotidiana del “politicamente corretto”, che inquina cuori, valori e distorce il significato stesso delle parole. In questi termini, e qui ha ragione il ministro Trenta, il ripristino della leva tout court non sarebbe la soluzione, ma solo una grave erosione di capacità operativa e di specializzazione tecnica. In altre parole, di quell’efficienza che le nostre Forze Armate, sebbene ormai piccoli numeri, non avevano mai conosciuto in passato.
Qualità che oggi ci sono riconosciute proprio in virtù di quelle modifiche che, negli anni dopo la “caduta del Muro”, iniziate e volute dal ministro Andreatta, anche in seguito sono state portate avanti con determinazione e sofferenza. Senza prima risolvere il problema sociale, andremmo solo a danneggiare qualcosa che, tra continui ostacoli, altre innovazioni (servizio femminile) e fatica immane, tutto sommato siamo riusciti a far funzionare. Certo, si potrebbe valutare soluzioni alternative (militari o civili), del tipo di quelle a suo tempo intraviste dai ministri La Russa e Pinotti, e forse proprio a qualcosa di simile voleva riferirsi Salvini. Queste attività, come la stessa leva, non sono mai state abolite, ma solo sospese a causa dei costi.
Coloro che all’epoca erano “addetti ai lavori”, certamente ricordano che mai nessun provvedimento di legge era stato così ponderato, motivato e gradualmente sperimentato come quello della sospensione della leva. Il processo è durato una decina d’anni, con continue audizioni parlamentari dei Vertici, le cui registrazioni e trascrizioni, testimoniano ancora oggi la serietà e la capillarità del lavoro svolto. Dibattito e ascolto sono sempre stati di tenore elevato, recependo tutte le esperienze che proprio allora si andavano maturando, dal Golfo al Kosovo, dalla Bosnia alla Somalia. Fino a Timor Est, a sedicimila chilometri da casa..
Alla fine del processo, la legge 226/2004, allora nota come “legge Martino”, era stata approvata con una maggioranza inusuale: 433 voti favorevoli, 17 contrari, qualche assente e non molti astenuti. Ricordarlo può essere utile a tutti, anche se l’esperienza ci dice che nulla è perfetto.