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Grazie a Trump l’Italia può tornare centrale in Europa. L’intervista a Dottori

La visita del 30 luglio scorso del presidente Conte a Washington ha mostrato una sintonia molto forte tra lui e Trump, aprendo alla possibilità concreta di una collaborazione ancora più stretta tra Usa e Italia nei dossier internazionali più importanti per i due Paesi. Germano Dottori, docente di studi strategici alla Luiss di Roma e consigliere scientifico di Limes, è tra i pochi ad aver sempre sostenuto, ancora prima della vittoria di Trump, che gli equilibri internazionali, così come sarebbero potuti cambiare con il Tycoon alla Casa Bianca avrebbero potuto avvantaggiare il nostro Paese. Dopo un anno e mezzo, Formiche.net lo ha intervistato, per fare il punto sullo stato dell’arte dei rapporti tra Roma e Washington e per capire se le sue previsioni si sono o meno realizzate.

Dottori, lei è stato tra i primi a suggerire che la vittoria di Trump avrebbe aperto un’interessante finestra di opportunità per il nostro Paese. A un anno e mezzo da quelle elezioni, qual è il suo bilancio?

Non ho cambiato idea. L’Italia è debole in Europa, senza una forte leva esterna ha poche possibilità di difendere efficacemente i propri interessi, per quanto l’aria stia cambiando e sussista un maggiore consenso intorno all’idea di proteggere meglio il nostro paese dal tentativo piuttosto evidente di ridurne l’influenza nel Mediterraneo ed impoverirne il sistema produttivo. In questa prospettiva, Trump può esserci utile, resta un’opportunità da non vanificare. Il dato più importante, tuttavia, almeno per me è la crescita della libertà politica di cui sta godendo tutto il vecchio Occidente. Oggi ne approfittano movimenti di stampo sovranista invisi a molti, in futuro potranno trarne giovamento altre forze. Ma ci sono comunque meno vincoli. Non so se, in presenza di un’Amministrazione diversa da quella che ha preso il potere a Washington, in Italia sarebbe davvero potuto sorgere il governo giallo-blu che abbiamo. L’America si fa rispettare, sotto Trump, forse anche più di prima, quando siano in gioco alcuni suoi interessi fondamentali. Ma su tutto il resto, e non è poco, lascia fare i propri interlocutori, cui rimette serenamente il compito di decidere come amministrarsi, interferendo molto meno che in passato con le dinamiche politiche interne dei partner. Trump è rimasto aderente alla lettera e allo spirito del suo discorso d’insediamento.

Dopo Brexit alcuni osservatori auspicavano che il testimone della “special relationship” potesse passare proprio all’Italia. A che punto siamo?

Ero fra loro, ne scrissi su Limes più volte. In realtà, su questa strada sono sorti degli ostacoli che hanno rallentato il processo. Uno era prevedibile, l’altro è stato una vera sorpresa. Inizialmente, abbiamo scontato la riluttanza del Premier Gentiloni a mostrarsi troppo vicino al Presidente americano, inviso all’elettorato del Pd e ad una parte molto ampia del mondo cattolico che lo sosteneva. Ancora oggi, con Trump da un anno e mezzo alla Casa Bianca, l’ex Presidente del Consiglio preferisce parlare delle sue interlocuzioni con John Kerry, come se fosse tuttora il titolare del Dipartimento di Stato. Abbiamo perso del tempo prezioso per candidare il nostro paese a veicolare in Europa gli interessi americani in cambio dell’appoggio di Washington nei confronti delle pressioni esercitate su di noi da Berlino e Parigi. Non era invece scontato che Emmanuel Macron aprisse a Trump, invitandolo il 14 luglio dello scorso anno ad assistere alla parata militare con la quale sugli Champs Elysées si celebra la presa della Bastiglia. Siamo stati spiazzati su tutti i dossier più importanti.

Perché?

Perché a quel punto Trump ha colto la palla al balzo, permettendo alla Francia di rafforzarsi nei confronti della Germania, anche espandendosi nel Mediterraneo, esattamente come si attendeva il Presidente francese. E’ così persino accaduto che le imprese petrolifere americane presenti in Libia considerassero di cedere le proprie partecipazioni alle concorrenti transalpine. Qualcosa è però cambiato. Macron ha promosso progetti integrativi in Europa di una certa incisività che debbono aver indotto Trump ad un ripensamento. Siamo tornati ad una specie di balance of power. Washington pone paletti all’espansione del potere francese in Libia e, forse, anche alla penetrazione transalpina nel sistema economico-finanziario del nostro paese. Se sono rose, fioriranno. E’ chiaro comunque che siamo terreno di scontro. Dobbiamo maturare al più presto la consapevolezza del fatto che non possiamo più tenere facilmente i piedi in tutte le scarpe. Contro di noi potranno essere messi in campo mezzi pesanti. Lo stiamo vedendo con Fincantieri. Va ad un matrimonio con Naval Group. E come per incanto una testata del peso de La Tribune attacca la reputazione della nostra azienda. Curioso ed economicamente poco comprensibile. La logica che spiega questi comportamenti è infatti di tipo diverso, strategica. Si tratta di stabilire chi sarà il partner dominante.

Obiettivo conclamato di Trump è la distensione dei rapporti con Mosca, precipitati ai minimi storici dopo l’invasione russa della Crimea. Ciononostante, ancora oggi le sanzioni restano in piedi. L’Italia può giocare un ruolo e favorire la de-escalation?

L’Italia non dispone purtroppo di una simile influenza internazionale, anche se talvolta alcuni esercizi di “facilitazione”, come ora si usa dire, le riescono. Prima di andare a Mosca per preparare il vertice di Helsinki, Bolton è venuto qui, non è andato a Parigi. Vorrà pur dire qualcosa, credo. Ma bisogna essere realisti: nel suo dialogo con Putin, Trump non vuole e non può avere intermediari. Esclude dalle fasi più sensibili delle trattative anche i suoi collaboratori. E ha ragione: il Congresso vorrebbe adesso interrogare l’interprete, in quanto unica testimone dell’incontro tra il leader americano e quello russo svoltosi in Finlandia, per sapere cosa si sono detti. Che le sanzioni restino, mi pare normale. Gli stessi americani fanno spesso notare che non hanno un impatto particolarmente forte e che il loro obiettivo è essenzialmente di segnalazione. Credo facciano ormai parte di un gioco delle parti. Utile a molti, forse a tutti coloro che lavorano alla riconciliazione, che ha fatto già enormi passi in avanti. I militari americani cooperano con i loro colleghi russi in un teatro operativo complesso e violento come quello siriano: non è un atteggiamento naturale tra presunti nemici, perché implica un certo livello di apertura reciproca. Le parti imparano a conoscersi ed apprendono dottrine e procedure operative che di solito si mantengono segrete, se c’è il rischio di un futuro confronto armato.

La politica estera dell’amministrazione verso le Russia continua ad essere azzoppata dalle accuse di interferenze russe nelle elezioni del 2016?

È vero, Trump deve difendersi dalle accuse che ancora gli rivolgono a proposito delle elezioni del 2016, che hanno registrato la sconfitta di un blocco di interessi molto potente e ramificato. L’apparente intransigenza potrebbe aiutare il progresso concreto verso intese di ampia portata, magari negoziate nel segreto più completo. Avvenne qualcosa di simile anche prima della svolta attuata da Nixon e Kissinger con la Cina di Mao. Anche l’insistenza sul Tap non deve impressionare eccessivamente. Una volta realizzato, non potrebbe mai rimpiazzare le forniture russe, la cui valenza strategica è stata peraltro già in parte vanificata dall’Unione Europea. Una volta, il gas venduto da Mosca a Berlino non poteva essere trasferito a paesi terzi, che erano quindi all’occorrenza facilmente condizionabili. Adesso sì, fatto che riduce di molto la capacità russa di utilizzare strategicamente il metano senza rinunciare per lunghi periodi ad entrate preziose. E poi dev’essere chiaro che nel contesto di una distensione russo-americana, all’Italia sarà consentito di approfondire i propri rapporti con Mosca anche notevolmente, ma non di stravolgere completamente l’architettura della propria politica estera. Sono piccoli pegni, a fronte di vantaggi che potrebbero rivelarsi cospicui.

Il rapporto cordiale tra Conte (e il governo italiano) e Trump stona con la diffidenza con la quale le cancellerie europee guardano all’attuale inquilino della Casa Bianca. Seguire Trump significa oggi allontanarsi dall’Europa?

Scommettere su Trump significa cercare una sponda, un partner con il quale bilanciare la nostra debolezza nei confronti di Francia e Germania, che peraltro non sono neanche sempre allineate, ma che non riusciamo più a giocare l’una contro l’altra, soffrendo entrambe. Ovviamente, non ci saranno cambiamenti netti, ma il mix di misure politiche rifletterà inevitabilmente un riequilibrio della nostra postura. Che i nostri partner europei non siano contenti, mi pare rivelatore dello stato di soggezione al quale comunque amerebbero relegarci. Intendiamoci, non sono da biasimare. Fanno i loro interessi. Anche noi dobbiamo perseguire i nostri. Gli Stati Uniti potrebbero rafforzare il nostro peso negoziale, aiutandoci a contare di più in Europa. E’ ciò che accadde durante la Guerra Fredda, d’altra parte. Noi e gli americani aiutammo l’Fln a sconfiggere la Francia durante la Guerra d’Algeria. Bisognerebbe ricordarselo.

Ma siamo veramente utili agli Usa? In Libia come nel Mediterraneo, siamo davvero in grado di esercitare il ruolo di “leadership” di cui sia Trump che Conte hanno fatto menzione nello scorso bilaterale?

Per leadership in Libia, purtroppo, noi e gli americani intendiamo cose diverse. Lo disse già Obama a Renzi, in un memorabile incontro svoltosi a Villa Madama, che della Libia avremmo dovuto occuparci noi. E fu in quel periodo che si parlò anche di una nostra missione militare che avrebbe dovuto comportare l’invio oltremare di cinquemila soldati, alla quale abbiamo poi rinunciato. Dobbiamo capire che né Obama né Trump sono stati eletti per far nuove guerre, meno che mai per conto di altri paesi. Chi li ha votati si aspettava e si attende tuttora un ridimensionamento dell’esposizione esterna degli Stati Uniti, che peraltro non comporta la riduzione della potenza americana. Washington pensa probabilmente ad una concertazione con Roma e forse ad una copertura politica generale, all’ombra della quale dovremo agire come abbiamo fatto sempre dal 1945 ad oggi. Con strumenti poco visibili, quelli che usiamo meglio, piuttosto che con grandi unità militari che probabilmente compatterebbero tutte le milizie locali ed i loro sponsor esteri contro di noi.

Rimanendo nel Mediterraneo allargato, si è molto parlato della cabina di regia Italo-americana. Che ne pensa? Alcuni osservatori spiegano che gli americani, stufi degli azzardi francesi in Nordafrica, possano aver deciso di puntare forte sul nostro Paese. Altri invece avvertono che Parigi resta per Washington un alleato insostituibile nella regione, se non altro per la sua propensione, quasi un unicum in Europa, a fare uso dello strumento militare. Qual’è la sua opinione?

Che il supporto americano alla Francia dipende crucialmente dalla politica europea di Macron. Se l’Eliseo si presta ad una politica di contenimento e ridimensionamento della forza di una Germania nella quale sta prendendo quota addirittura un dibattito sull’opportunità di acquisire armi nucleari, avrà prima o poi nuovamente forti sostegni. Ma se prevarrà, com’è parso più di recente, un orientamento al compromesso tra Parigi e Berlino, magari cementato dalla crescita della cooperazione militare intraeuropea, Trump probabilmente continuerà a scommettere su di noi. Le decisioni americane risentiranno perciò di quelle prese dai singoli Governi europei e mireranno alla massimizzazione degli interessi nazionali statunitensi. Io trovo interessante, in questo contesto, che l’Italia abbia scelto di non aderire all’Iniziativa europea d’intervento che ha preso forma in queste settimane sotto la guida di Parigi. Al di là delle motivazioni che ne sono state date, mi è parsa una misura geopoliticamente adeguata alla situazione in cui ci troviamo.


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