È cambiata la visione di Erdogan: dall’obiettivo euromediterraneo, a quello di new player nel quadrante mediorientale di stampo neo-ottomano, passando per i tavoli in cui si è seduto, come Siria, Cina e est. Le provocazioni di Ankara, con la clava delle sanzioni agli Usa, spiegate dall’ex ministro della Difesa Mario Mauro, Presidente dei Popolari per l’Italia, che in questa articolata conversazione con Formiche.net ragiona sul perimetro delle azioni erdoganiane, sul reale stato della sua economia e sui riverberi che in seno alla Nato avranno queste mosse.
Le mosse anti Usa di Erdogan rischiano di trasformarsi in escalation?
In primis c’è da capire la strategia all’interno della quale si colloca questa mossa: di fatto ha radicalmente mutato orientamento dal tempo del primo Erdogan, ovvero quel leader che si proclamava moderato e che intendeva collocare la Turchia all’interno del contesto Ue. Da molti anni Ankara, e ben prima del tentato golpe che ha visto riproporre la politica erdoganiana in una chiave di superamento di una democrazia costituzionalmente intesa, si è esercitata in una strategia che da tempo ho definito neo-ottomana.
Vale a dire?
Che la Turchia non accetta più il ruolo di comprimario tra gli alleati strategici degli Usa nell’area a cavallo tra l’occidente e l’oriente, un ruolo che la vedrebbe in subordine per esempio rispetto all’Arabia Saudita. E invece vuole esercitare in pieno la ledership, non solo nel mondo islamico ma anche in quello scacchiere che vede protagonisti in una guerra interminabile i due paesi del golfo: Arabia e Iran. Sono molti anni, prima di tutto attraverso la gestione della crisi nata intorno alla gestione delle primavere arabe, che la Turchia si è di fatto infiltrata nella vita di altri Stati dell’area. Penso al ruolo che ha esercitato in Egitto e in Tunisia, o a quello che vorrebbe sottrarre ad altri players nella partita siriana.
Con quale obiettivo?
Riproporsi non solo come il più importante alleato degli Usa, ma come un paese che può fare a meno degli Stati Uniti o addirittura che non teme di concorrere a una vera e propria escalation come quella che c’è stata quando Ankara non ha esitato ad abbattere l’aviogetto russo al confine siriano. Per cui da questo punto di vista gli atti di Erdogan sono fatti senza calcolo, nel senso che segue solo la volontà di consolidare la leadership di un paese che ormai considera alla pari delle grandi potenze.
Lo fa, però, mostrando di essere un abile giocatore. Bluffa o fa sul serio?
Muove le proprie pedine, da un lato, facendo vedere agli Usa di applicare la stessa natura sanzionatoria che gli Usa a loro volta usano, considerati in realtà l’unico vero soggetto di dimensione imperiale, se possiamo definirli in questi termini, capaci di intervenire a trecentosessanta gradi nel mondo attraverso sanzioni nominali. E battendo sul ferro caldo del nazionalismo turco all’indomani di elezioni in cui Erdogan reputa che Washington abbia avuto un ruolo nel sostenere il capo delle opposizioni spuntato quasi dal nulla alla vigilia delle urne. E che potrebbe essere stata un’ulteriore dimostrazione di quella democracy building del Dipartimento di Stato, questa volta contro un alleato considerato riottoso. Un alleato ormai ingombrante che per il futuro potrebbe diventare anche problematico.
Quanto valgono le carte che ha in mano Erdogan?
Il tentativo fatto, appunto come un giocatore di poker, di schierarsi apparentemente con Putin è reso in realtà improbabile dal fatto che lo stesso Putin non può venire meno alle sue alleanze storiche, in primis quella con l’Iran. Quindi tendenzialmente, soprattutto di fronte al profilarsi di nuove intese tra Mosca e Washington, il margine di manovra del padrone della Turchia è molto meno ampio di quello che si può immaginare.
Come convivere in ambito Nato con questa contraddizione?
Credo sia questo il nodo maggiore. In ambito Nato tale contraddizione se la portano dietro gli europei, perché il “campo” dove queste tensioni si scaricano è l’area euromediterranea. Quindi è la Nato che in questo momento vive il dramma di avere un’alleanza con una probabile crisi di identità al suo interno, che si riflette sul fatto che la somma dei principali eserciti europei non arriva all’organico delle truppe di Erdogan. Se consideriamo che i paesi Ue sono lontani dal grado di contribuzione chiesto da Trump, ecco che siamo in presenza di un meccanismo che mette in difficoltà soprattutto Francia e Germania, e in parte anche l’Italia.
Ankara annuncia anche la costruzione di una centrale nucleare, mentre la lira va giù. Sono fondate le ipotesi di un’economia turca a lenta combustione?
Se penso al sistema manifatturieto turco, lo vedo ancora molto solido: è un vettore importante che potrebbe moltiplicare i propri affari in coincidenza con quella direzione che tutti chiamiamo la Via della Seta. Un sistema che è a cavallo delle esigenze dell’est e del Medio Oriente, oltre alle incursioni fatte nella stessa area europea. Però è vero che il senso di instabilità dettato dalle strategie comunicative di Erdogam con una tendenza condivisa con Cina e Russia a superare le forme della democrazia rappresentativa esasperando perfino il carattere delle leadership, può portare nel medio-periodo a una diffidenza di mercati e investitori. E anche dei cittadini turchi stessi, che come accaduto in altri paesi, dalla Turchia hanno iniziato a portare fuori i propri denari. Un aspetto che Ankara non dovrebbe sottovalutare, perché una crisi di carattere finanziario per questo Paese potrebbe essere letale.
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