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Cosa dimostra la vendita dei titoli di Stato italiani. La versione di Polillo

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Quei 70 miliardi di titoli venduti dall’estero in soli due mesi una cosa la dimostrano in modo inequivocabile: il ritardo del governo italiano nel comunicare ai mercati la sua strategia in tema di politica economica. E speriamo che sia solo questo. Che in qualche luogo, nel labirinto delle competenze, qualcuno questa strategia l’abbia elaborata ed aspetti solo il momento più opportuno per renderla nota.

Se così non fosse, saremmo di fronte ad un temporeggiare senza costrutto. Nella (vana) speranza che i primi venti dell’autunno possano fare il miracolo di una ritrovata unità d’intenti. Sempre possibile, ma improbabile. Con il trascorrere dei giorni, infatti, aumentano i problemi. Gli spread tendono a crescere. E di conseguenza le risorse a disposizione a diminuire. In simili circostanze sarebbe saggio giocare d’anticipo. Rischiare, se necessario, ma per scongiurare un male certamente maggiore.

In una situazione ben più drammatica, com’era quella del 2011, fu questo il tentativo estremo del governo Berlusconi, anticipando con il decreto legge dell’estate, la manovra di finanza pubblica. Purtroppo non riuscì, a causa dell’affastellarsi di problemi politici e di problemi che attenevano sia al quadro macroeconomico che alla situazione finanziaria. Ma, oggi, per fortuna la situazione non è così drammatica.

La Grecia è appena uscita dalla tutela coatta della Troika. Non esiste, salvo la crisi della lira turca (comunque fuori dall’euro), alcun pericolo di contagio. Lo shock esogeno, connesso con la crisi della Lehman Brothers, seppure in modo parziale, è stato assorbito. Il Pil italiano, allora in caduta libera, mostra segni di resilienza. Soprattutto il quadro macroeconomico è completamente diverso. Addirittura opposto.

Allora lo squilibrio dei conti con l’estero (circa il 3 per cento del Pil) dava l’immagine di un Paese che, da tempo, viveva al di sopra delle sue possibilità. Richiedeva pertanto una stretta finanziaria che le forze politiche, allora padrone del campo, non avevano la forza di fare. Fu quindi necessario cedere lo scettro ad un governo tecnico, incaricato di fare il lavoro sporco. Seppure con uno zelo – come mostreranno i dati a consuntivo – che andò anche oltre il necessario.

Oggi i conti con l’estero non solo sono a posto. Ma l’Italia ha un surplus delle partite correnti della bilancia dei pagamenti che è secondo solo alla Germania ed ai Paesi Bassi. La dimostrazione che da troppo tempo, a causa della compressione della domanda interna, stiamo tutti vivendo al di sotto delle nostre possibilità. Cosa aspetti il governo a valorizzare questo elemento e trarne tutte le necessarie conseguenze rimane il grande mistero di questa fase politica.

Eppure una comunicazione orientata nel senso indicato dimostrerebbe la forza residua di un’economia che può continuare a crescere, con una politica economica adeguata. E sviluppandosi, oltre i modesti risultati degli anni passati, contribuire a ridurre il rapporto debito – Pil. Un piccolo esercizio econometrico ne dimostrerebbe le intrinseche possibilità.

Nulla di tutto ciò, finora è stato tentato. Speriamo solo che qualcuno ci stia lavorando. Non si faccia troppo affidamento sulla pazienza dimostrata da alcune Agenzie di rating. Moody’s ha deciso di rinviare ogni giudizio alla fine d’ottobre, non per fare un piacere all’Italia. Me nella consapevolezza che l’eventuale pollice verso segnerebbe una crisi dell’euro ben più drammatica, di quanto si è potuto vedere con la Grecia. Ed è sopratutto questo che si cerca di evitare.


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