Cento giorni di un “normale” governo di coalizione fra due partecipanti che non si conoscevano e che sanno di essere in competizione: questa è la premessa di qualsiasi valutazione. Un minimo di comparazione con i cento giorni di alcuni governi precedenti indica che Cinque Stelle e Lega hanno fatto meno decreti e iniziato meno leggi. Questo attivismo inferiore al passato potrebbe essere un aspetto positivo dato che, da un lato, è giusto criticare l’eccesso di decretazione d’urgenza (peraltro, il decreto Dignità merita la critica relativa alla sua disomogeneità), dall’altro, è opportuno ricordare che molte leggi non significa mai necessariamente buone leggi.
In cento giorni il governo giallo-verde ha impostato, senza nessun disturbo proveniente da due opposizioni diversamente irrilevanti, il lavoro futuro che, per l’appunto, sarà poi il vero oggetto della valutazione. Propongo due prospettive. La prima riguarda lo stile, in questo caso, non del governo, ma dei leader dei due partiti contraenti. Salvini è partito all’arrembaggio, favorito anche dalla problematica che sembra preoccupare di più gli italiani: l’immigrazione. Ha ottenuto qualche risultato in quanto a riduzione degli sbarchi, ma nessuno per quel che riguarda la redistribuzione degli arrivi. Di Maio sembra giocare di rimessa, cercando qualche vittoria nel comunicare la sua azione, i cui effetti, però, a cominciare dal decreto dignità non possono essere immediati. La chiusura della faccenda Ilva non produce comunque il consenso trasversale che l’immigrazione ha dato a Salvini.
L’attesa è grande per la legge di bilancio sulla quale i due leader si giocano parte della loro credibilità agli occhi quantomeno dei rispettivi elettorati. Assente in tutte queste operazioni è il professor Giuseppe Conte, non eletto dal popolo, facente funzione di Presidente del Consiglio. Molto presente, invece, è il Ministro dell’Economia Giovanni Tria. Toccherà a lui cercare di combinare quel che si può del reddito di cittadinanza con quel che si può della flat tax. La somma complessiva deve al massimo “sfiorare” e non “sforare” il 3 per cento. Qui sta l’elemento più interessante del bilancio dei cento giorni di Di Maio e Salvini. Entrambi sembrano avere compreso che, da un lato, esistono dei freni all’azione del governo, dall’altro, si manifestano dei contrappesi. Non sono le oligarchie e i poteri forti, ma l’Unione Europea e i mercati a mettere il freno a scelte sconsiderate. Alcune dichiarazioni e alcuni comportamenti, ad esempio, nella critica ai magistrati e in improvvide richieste di intervento del Presidente Mattarella, vengono bloccate sul nascere dall’esistenza di contrappesi istituzionali e politici. La spinta populista di Salvini, “gli italiani stanno con me” e “i magistrati non li ha eletti nessuno”, va a sbattere, in parte, contro alcuni principi che le Cinque Stelle non possono abbandonare, in parte, contro i poteri separati che la Costituzione attribuisce alle istituzioni.
Senza nessuna illusione che i populisti/sovranisti limiteranno le loro esternazioni, leggere i cento giorni di governo anche come un processo di apprendimento serve a capire quale potrà essere il seguito. Finora il sistema politico ha retto l’urto. Il Governo del Cambiamento è stato obbligato a tenere conto delle forme e dei limiti nei quali esercitare il suo potere anche se gratificato da un consenso popolare al di sopra della maggioranza assoluta. Il pluralismo democratico, per quanto non rigoglioso, dà insegnamenti anche a chi è inesperto, impreparato, incompetente. Per fortuna, in democrazia (i bilanci e) gli esami non finiscono mai.