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All’ultima curva Salvini sceglie Di Maio. Ecco perché

Si, certo, i numeri sono importanti. Ma non riusciremmo a capire quanto è accaduto nel convulso giovedì alle nostre spalle senza una scrupolosa lettura politica, unico vero punto di riferimento dei due vicepresidenti del Consiglio. Succede infatti che Matteo Salvini, giunto all’ultimo bivio, sterza poderosamente verso Luigi Di Maio, abbandonando al suo destino il ministro Tria, i mercati, la prudenza e i consigli dell’establishment, compresa quella parte sensibile al mondo dell’impresa che da sempre guarda alla Lega come un soggetto “amico”.

Perché accade questo e qual è il senso della scelta? La ragione è duplice, poiché impasta calcolo e pancia, istinto e provenienza familiare, furbizia e connessioni internazionali. Salvini sceglie Di Maio (ancora una volta) innanzitutto perché ha un orizzonte politico ben preciso nella testa, cioè il voto delle Europee di primavera 2019. Quelle saranno elezioni in grado di terremotare gli equilibri politici del continente, portando alla fine dell’egemonia bipolare PPE-PSE. Si tratta cioè del più importante appuntamento elettorale dei prossimi mesi, in continuità con le consultazioni “mid term” americane.

Il fronte sovranista-populista (“America First” è l’equivalente di “Prima Gli Italiani”) ha nell’appartamento di novembre negli States e in quello Ue di maggio il suo esame di maturità: se supera queste prove passa da fenomeno passeggero a protagonista di questo momento storico. Ebbene Salvini vuole giocare da leader la partita di maggio e per farlo ci deve arrivare con il governo del cambiamento nel pieno della sua forza, pronto a sfidare tutto e tutti (soprattutto i parrucconi dei “poteri forti”). Quindi ha bisogno di tenere alti i consensi della Lega e di aiutare Di Maio a non veder implodere il movimento, per essere (tutti e due) in grado di contribuire alla “grande spallata” del voto europeo, anche perché l’Italia porta a Bruxelles un gran numero di eletti, secondo solo a quelli tedeschi (96) e quasi alla pari con la Francia (76 noi e 79 ai nostri “cugini” d’oltralpe).

A questa motivazione strategica ne va aggiunta una legata all’esperienza di vita. Salvini (e Di Maio ancor di più) non è uomo d’impresa, alle spalle ha un’intera vita fatta di politica. Non è cioè un leghista sensibile più di tanto alle esigenze del mondo produttivo del nord, è sopratutto un figlio della piccolissima borghesia presa a mazzate dalla globalizzazione e dalla crisi finanziaria del 2008-2009. Per questo “sente” il bisogno di aiutare quelle che considera le vittime di Monti, della Fornero, di Draghi, del Pd con le banche, di Berlusconi con le tv e così via: lui è a tutti gli effetti un “nuovo proletario” che imbraccia il sovranismo perché la bandiera rossa è diventata la bandiera dei mercati e della finanza (di cui a Davide Serra e tutti quelli che stanno con Renzi).

D’altronde Salvini sa che nulla può attendere di buono da Bruxelles, dove vogliono fargli pagare (e duramente) la sua intransigenza sul tema immigrazione. Lo ha capito definitivamente quando lo hanno aggradito e (nemmeno troppo velatamente) minacciato i vertici istituzionali del Lussemburgo, Paese minuscolo per territorio ma fortissimo in campo di finanza&segreti. Lì Salvini prende coscienza del fatto che i mandarini Ue lo vogliono morto, quindi attua la sua “virata” lasciando Tria al suo destino e scegliendo Di Maio con veemenza mai vista prima.

Adesso la partita si fa dura, perché qui non c’è più terreno di mediazione. Se scoppia l’inferno Salvini e Di Maio rischiano l’osso del collo. Ma se la bufera del secolo si rivela un temporale di fine estate loro ne traggono nuova forza, proprio in vista del voto di maggio prossimo. Poi, ma davvero molto “poi”, ci sono i temi dell’economia italiana, del suo debito pubblico e di ciò che serve a farla crescere. Sono certamente importanti, ma i due Vice Presidenti del Consiglio hanno deciso di giocare sul breve periodo.

Così è, se vi pare.

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