L’effetto operativo del vertice d’urgenza tra Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan è la creazione di un’ampia buffer zone, zona cuscinetto delimitarizzata, in una fascia della provincia di Idlib. Turchia e Russia, rispettivamente sponsor alleati di opposizione e regime hanno scelto di costruire un, seppur debole, sistema di tutela reciproca: l’offensiva sull’ultima roccaforte ribelle ha messo in discussione la partnership che Mosca e Ankara hanno costruito attraverso il processo di Astana, sistema negoziale sul conflitto in cui i russi hanno voluto includere i turchi due anni fa.
Sarà profonda da 15 a 25 chilometri (a secondo della geografia locale) è piazzata lungo la linea di contatto tra lealisti e opposizione, tutelerà un distacco minimo tra le due parti in guerra, e permetterà ai turchi di tenere a distanza il conflitto, seguendo una richiesta vecchia anni. Saranno truppe inviate da Russia e Turchia a pattugliare la zona per monitorare sul rispetto della demilitarizzazione, che entrerà in vigore il 15 ottobre.
Entro il 10 del prossimo mese, ha annunciato Putin, le armi pesanti delle opposizioni dovranno essere fuori dalla buffer zone, che dovrà tutelare i civili. I gruppi armati, per primo i filo qaedisti dell’ex al Nusra, dovranno uscire dall’area, e resteranno i principali obiettivi delle operazioni militari russe: sotto quest’ottica si potrebbe parlare di zone de-radicalizzate, ossia dove, sotto tutela turca, potranno stare gruppi ribelli, armati non in modo pesante, purché non jihadisti.
Il ministro della Difesa russo, Sergei Shoighu, poco dopo la conclusione del faccia a faccia tra i due leader, ha garantito che non sono previste nuove operazioni militari su Idlib.
“Eviteremo una tragedia umanitaria che potrebbe verificarsi a seguito di un’azione militare”, ha detto Erdogan, che in fondo, dopo il rifiuto sul cessate il fuoco ricevuto il 7 settembre durante una riunione di altissimo livello del trio di Astana (Russia, Turchia, Iran), esce con una mezza vittoria. Ankara salva la faccia, tutela una parte dell’opposizione che ha da sempre difeso fin dall’inizio del conflitto, preserva la sicurezza nazionale evitando l’ondata migratoria. Almeno teoricamente, perché, come già successo con le zone di de-escalation già progettate ad Astana, siriani e iraniani potrebbero non rispettare l’intesa (magari citando la lotta al terrorismo come scusa per completare la presa territoriale). Dall’altra parte, i gruppi jihadisti potrebbero violare la tregua in diversi punti della fascia cuscinetto.
Al momento tuttavia l’accordo raggiunto a Sochi è accolto positivamente dalla Comunità internazionale, perché evita il “bagno di sangue” previsto anche dall’Onu se la campagna governativa terrestre si fosse spinta fino a fondo — operazione che avrebbe per altro rischiato di mettere le forze turche contro quelle siriane (corpaccione composto dalle poche unità regolari rimaste in mano al regime, più le milizie sciite mosse a sostegno di Bashar el Assad dall’Iran).
L’intesa è a breve termine: al momento non è prevedibile capire gli effetti di questo accordo su molte componenti, a cominciare da quelle jihadiste sul campo.