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Così ci apriamo alla Cina ma senza svendere asset strategici. Parla Geraci

La missione cinese del ministro dell’Economia Giovanni Tria è volta al termine. Un’altra missione, parallela ma non meno importante, è invece ancora in corso: quella del sottosegretario al Mise Michele Geraci, che ha trascorso tre giorni a Shanghai e ora è a Pechino alla guida della task force che il ministero ha voluto costituire ad hoc. Tanti i dossier sul tavolo: la promozione del made in Italy, la digitalizzazione delle nostre Pmi, gli investimenti nelle infrastrutture italiane, compresi alcuni dei porti strategici che potrebbero divenire il terminale del One Belt One Road, il gigantesco piano infrastrutturale con cui Xi Jinping vuole unire Asia, Europa, Africa e Medio Oriente via terra e via mare. Formiche.net ha intervistato Geraci per capire quali saranno le prossime mosse del governo gialloblu nel dragone. Aprire le porte del Paese agli investimenti cinesi è una grande opportunità per le imprese italiane che però comporta anche dei rischi, specie quando in ballo ci sono gli asset strategici. Ma il sottosegretario, che ha vissuto e insegnato a lungo in Cina e dunque è fine conoscitore dell’ex Celeste Impero, rassicura: “Non vogliamo svendere nulla”.

Un primo bilancio della missione in Cina?

Finora la missione del Mise ha mantenuto un focus sulle piccole imprese, quelle che hanno poche chance di incontrare rappresentanti del governo cinese. Questo tipo di incontri, basato su q&a sulla politica economica del governo italiano e sulla task force del Mise, è stato molto apprezzato. Per me è stato molto emozionante tornare dove ho vissuto dieci anni con un carico nuovo di responsabilità. Dopo quelle di Shanghai, faremo una riunione con i rappresentanti della comunità italiana a Pechino. Vogliamo far sentire la presenza delle istituzioni agli italiani che lavorano qui con focus sull’internazionalizzazione delle Pmi, che hanno più bisogno del sostegno del governo. Abbiamo dedicato molto spazio alla Green economy, uno dei settori dove possiamo avviare una cooperazione con la Cina.

In Cina c’è preoccupazione per la stabilità dell’economia italiana dopo l’outlook negativo di Fitch?

Io ho incontrato i rappresentanti di alcuni fondi. Per il momento non ho percepito preoccupazione. Probabilmente i cinesi vanno oltre quello che si sente nei media italiani, c’è la consapevolezza che siamo qui per fare il bene del Paese.

Avete trovato investitori pronti a comprare il debito pubblico italiano?

La mia responsabilità è attrarre investimenti su asset, infrastrutture, aziende italiane. Io vengo in parte dal mondo della finanza e conosco molti investitori cinesi, ma non era questo lo scopo principale della missione, siamo qua per verificare eventuali interessi a 360 gradi.

L’Italia è ai primi posti nella classifica dei Paesi europei che esportano in Cina. Avete un piano per ridurre il deficit commerciale con il dragone?

In realtá l’Italia è indietro rispetto agli altri: la Germania esporta 5 volte più di noi, la Svizzera il doppio. Ció posto non penso che la riduzione del deficit debba essere l’0biettivo primario. La priorità è aumentare l’interscambio, avere un deficit non è necessariamente negativo. Per annullarlo basterebbe smettere di colpo di acquistare 15 miliardi di euro di merci dalla Cina, non mi sembra una buona idea.

Come convincerete i cinesi a comprare made in Italy?

Per aumentare l’interscambio è necessario anzitutto far sentire una presenza costante del governo, moltiplicando questo tipo di missioni. Dopodiché bisogna far nascere nell’immaginario dei cinesi la convinzione che l’Italia offre prodotti diversi da quelli che loro sono abituati a comprare. Faccio un esempio banale: un cinese quando vuole comprare una buona bottiglia di vino ne sceglie una francese. Uno degli obiettivi della nostra task force è fare un’operazione di marketing, e convincerli che i vini italiani sono altrettanto buoni.

Come rilancerete la distribuzione delle Pmi italiane in Cina?

Con Alibaba stiamo portando avanti un progetto per inserire le aziende italiane in un hub della famosa piattaforma di e-commerce cinese. Abbiamo fatto una riunione con i funzionari dell’Ice, vogliamo digitalizzare la vendita dei prodotti made in Italy. Pian piano stiamo assistendo all’apertura di nuove aziende italiane. Purtroppo molte aziende sono titubanti perché hanno avuto in passato poco sostegno dal governo, e perché hanno ancora scarsa consapevolezza del potenziale del mercato cinese – dobbiamo convincere le nostre aziende dell’opportunità di investire in Cina.

Lei aveva annunciato che uno degli obiettivi della missione targata Mise era trovare investimenti nelle infrastrutture italiane. L’ondata di nazionalizzazioni paventata dal governo spaventa gli investitori cinesi?

Non c’è nessuna ondata di nazionalizzazioni in arrivo. La Cina sa investire bene nelle infrastrutture. Noi dobbiamo stare attenti a non svendere i nostri asset, ma al contempo è opportuno cooperare con i cinesi. Nessuno vuole andare dal governo cinese con il cappello in mano. La Cina ha bisogno di sapere quali sono gli incentivi con cui l’Italia vuole attrarre gli investimenti. La flat tax desta molto interesse, perché agevola la fiscalità ed è una misura level playing field, cioè applicata tanto agli investitori stranieri quanto a quelli domestici.

Anche se non sappiamo quale sarà la sua versione definitiva, né se ci sarà spazio nella legge di bilancio.

È vero, ma in questo caso parliamo della corporate tax, dove la tendenza è comunque al ribasso, e questo incentiva gli investimenti cinesi, che in ogni caso puntano sempre al lungo periodo.

A proposito di investimenti, il governo Cinese sembra guardare allo Stivale come terminale della nuova Via della Seta su cui tanto ha scommesso il presidente Xi Jinping. L’Italia vuole vendere il porto di Trieste?

Chiarisco che noi non abbiamo intenzione di vendere nulla. Anzi, io ho presentato un piano di screening degli investimenti con lo scopo di limitare l’M&A. Vogliamo proteggere le industrie italiane da questo tipo di acquisizioni che non sempre portano benefici economici immediati al Paese. Dobbiamo invece favorire gli investimenti brown field e green field, cioè quelli che aumentano la capacità produttiva del Paese. Non vendiamo il porto, facciamo sì che gli investimenti dei cinesi si sostanzino per esempio nella costruzione di un molo nuovo.

L’acquisto del porto del Pireo da parte della compagnia statale cinese Cosco ha innescato dure polemiche..

Il caso del Pireo è ibrido. Noi non vogliamo un semplice scambio di azionariato, ma un’immissione di nuovo capitale che finisce direttamente nell’azienda, amplia la capacità produttiva e crea nuovi posti di lavoro. In Cina c’è molto interesse per il porto di Trieste, ma anche per Genova, Venezia, Taranto. I cinesi vogliono capire quale possa essere il terminale della Via della Seta. Sta a noi decidere se accettare la loro proposta.

C’è il rischio che la vendita di asset nazionali alla Cina faccia inciampare l’Italia in una debt trap?

La debt trap può cogliere in fallo Paesi piccoli, dove il peso del debito è una proporzione importante dell’economia nazionale. L’Italia fa parte del G7, perché si crei una debt trap servirebbero investimenti da un triliardo. Non c’è questo rischio in Italia.

A Pechino si sta per aprire il Forum on China-Africa Cooperation, dove il presidente Xi accoglierà trenta leader africani per discutere di investimenti con un focus sul progetto One Belt One Road. L’Italia ha interesse a cooperare con i cinesi in Africa?

La cooperazione in Africa è un tema fondamentale per le nostre aziende. L’interesse nazionale italiano oggi coincide con il blocco dei flussi migratori, ma mi sembra che in Italia ci sia ancora poca consapevolezza del problema demografico dell’Africa. La popolazione africana raddoppierà nei prossimi trent’anni, da 1,2 a 2,4 miliardi di persone. I dibattiti su accoglienza sì accoglienza no, Europa sì Europa no sono sterili, perché l’Europa non ha purtroppo spazio per tutti.

Gli investimenti cinesi nelle infrastrutture africane sono un ostacolo o un’opportunità per l’Italia?

Questi investimenti hanno un ritorno per noi italiani perché innanzitutto contribuiscono a stabilizzare i Paesi dove sono presenti anche le nostre aziende. Inoltre, io credo sia il dovere di un Paese avanzato come il nostro non tanto accogliere chi fugge dal continente africano, quanto fare in modo che gli africani decidano di non abbandonare le proprie terre. È l’unica soluzione win-win per tutti. Per riuscirci serve prima stabilizzare l’economia e la situazione politica dei Paesi di origine. La Cina ha i capitali  per dare questo input iniziale. Noi dobbiamo favorire questo processo. Altrimenti non faremo altro che agevolare la fuga di cervelli dall’Africa e creare ulteriori gap di sviluppo per decenni a venire.

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