Palazzo Chigi fa sapere che “presto” (con ogni probabilità l’11 ottobre) il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, sarà in Etiopia ed Eritrea, dove incontrerà ad Addis Abeba il neo premier Abiy Ahmed, a cui farà seguito una visita ad Asmara dove vedrà il presidente Isaias Afewerki. I due paesi, protagonisti di una storica pace stretta definitivamente nei giorni scorsi, sono luoghi dove ancora (dopo la pagina coloniale) l’influenza dell’Italia è forte: l’Etiopia è il secondo beneficiario dei programmi di cooperazione internazionale italiana nel continente africano, per esempio.
Di più: stante ai dati sull’immigrazione del 2018, dopo la Tunisia, l’Eritrea è il paese da cui arrivano in Italia il maggior numero di persone; 2859 finora quest’anno. La stabilizzazione del processo di pace è dunque un asset strategico per Roma, che considera il problema immigrazione in cima all’agenda — e il governo può sfruttare le proprie entrature per facilitare vie d’accesso a ditte italiane durante gli step di crescita successivi al percorso di riavvicinamento (step che beneficeranno di un supporto multilaterale di primo livello, si vedrà. Ndr).
La pace tra Etiopia ed Eritrea è stato un percorso lungo, dopo un sanguinoso conflitto ventennale, facilitato anche dall’Italia (quando il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, andò in visita di stato ad Addis Abeba nel 2016, l’argomento fu tra i punti discussi). L’8 luglio i leader di governo dei due paesi hanno firmato la dichiarazione congiunta che ha dato il via alla fine del conflitto, sancita definitivamente il 17 settembre, in una cerimonia ospitata a Jedda, e aiutata dal punto di vista politico e diplomatico, dal re saudita Salman. Adesso, dopo l’indipendenza eritrea del 1993, il conflitto tra il 1998 e il 2000 per la demarcazione territoriale, l’inutile pace di Algeri del 2000, si può “superare un ventennio di sfiducia e muoverci in una nuova direzione”, come dice il governo etiope, anche perché l’accordo di pace gode di un’egida internazionale di primo piano.
Si tratta di un allineamento interessante, all’interno del quale si piazza l’Italia. Ieri il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che ha partecipato alla firma sul trattato etiope-eritreo, ha diffuso un nota per ringraziare ed elogiare il ruolo dell’Arabia Saudita nel processo: secondo l’Onu, “questi sviluppi rappresentano una pietra miliare storica e hanno implicazioni positive di vasta portata per il Corno d’Africa e oltre”. La dichiarazione arriva pochi giorni prima dell’inizio delle discussioni della 73a sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ed è dunque importante anche il timing: il consesso è un terreno in cui i sauditi incontrano critiche per questioni legate ai diritti, e ultimamente per l’azione militare contro i ribelli Houthi in Yemen, accusata di essere troppo spregiudicata.
Sulla questione, seppur ringraziando Riad per il ruolo nel processo etiope-eritreo, c’è personalmente tornato anche il segretario generale, Antonio Guterres, ricordando che “la nostra posizione è molto chiara”, condanniamo l’uso di armi “contro obiettivi civili”. Argomento di un attuale – e passato – dibattito interno anche in Italia, dove ai due partiti che compongono l’accordo di governo anche a Roma, vedono il ministero della Difesa e quello degli Esteri entrati in discussione pubblica, via social network, sul se fosse ancora il caso di continuare a fornire armi a Riad alla luce di certi scivoloni dell’operazione yemenita dai risvolti tragici (sì, dicono gli Esteri), oppure rivedere l’affare (forse, dice la Difesa).
La visita di Conte in Etiopia ed Eritrea segue il solco di uno sforzo diplomatico saudita (con una posizione che dalla Farnesina fanno sapere di approvare in pieno) e dunque si posiziona abbastanza nettamente. Un dossier con cui il regno si è dato una dimensione di dealer internazionale che ha cura per questioni umanitarie (la guerra tra i due paesi africani ha prodotto dozzine di migliaia di morti, e condizioni di vita pessime che hanno prodotto migrazioni) e lavora per la pace.
È un bilanciamento necessario davanti alle molte critiche, ma anche una questione strategica per Riad, perché stabilizzare i due paesi diventa nevralgico per non avere altri problemi sulla sponda africana dello stretto di Bab al Mandab, passaggio fondamentale con cui il commercio sale da Oriente, prendendo il Golfo di Aden e entrando in Europa via Suez. Dall’altro lato, quello yemenita, le problematiche ci sono, e ne sanno qualcosa gli emiratini (che hanno riportato a casa una nave militare semi distrutta da un missile terra-mare lanciato dai ribelli yemeniti, forse addirittura dall’Eritrea) – Abu Dhabi ha partecipato insieme ai sauditi a organizzare gli incontri tra Ahmed e Afewerki.
Parlare di rotte, importanza commerciale e stabilizzazione regionale, ampia un quadro che introduce la Cina all’interno dell’allineamento di attori esterni che hanno interessi e proiezioni sulla situazione del Corno d’Africa. I sauditi hanno fatto in modo di far incontrare l’eritreo Afwerki anche con il presidente di Gibuti, Ismail Omar Guelleh, e secondo informazioni diplomatiche si è trattato di una richiesta diretta da Pechino.
I cinesi hanno piazzato nel paese – il più stabile della regione – la loro prima base extraterritoriale, che è una presenza militare a poca distanza da un’altra base, l’americana Camp Lemonnier (da lì il CentCom gestisce i droni che seguono i qaedisti in Yemen e i jihadisti somali), con alta importanza geostrategica perché presidia a distanza l’apertura verso l’Europa, più a nord a Suez, delle rotte marittime della Via della Seta. La base, dice Pechino, ha lo scopo di controllare e dissuadere il fenomeno della pirateria, molto attivo nella zona, per permettere fluidità ai commerci.
La Cina è un attore pragmatico stabilizzante, che oltre a Gibuti (dove la Cina starebbe pensando anche a un’area di libero scambio gestita esclusivamente dalla China’s Merchants Holdings Company, per un progetto da oltre 3 miliardi di dollari) ha una presenza in Etiopia (che viene descritta come una grande fabbrica di fast fashion cinese) e un occhio all’Eritrea (i porti sulla fascia meridionale del Mar Rosso come Massawa sono punti di scalo “d’importanza strategica come parte del progetto marittimo della Silk Road”, disse lo scorso anno l’ambasciatore cinese in Eritrea).
Roma è sulla linea cinese, il suo peso diplomatico proietta l’Europa sul processo di pace nel Corno d’Africa e dà supporto alle iniziative di Pechino con potenziali ritorni. Qualche giorno fa, il South China Mournin Post, giornale di Hong Kong di proprietà del re cinese dell’e-commerce Jack Ma, scriveva che l’Italia ha come strategia quella di diventare il primo partner cinese all’interno del G7 per il progetto Obor, acronimo inglese della Nuova Via della Seta. Un piano che richiede cooperazione anche dal punto di vista diplomatico e politico internazionale.
Bonus: su quella fascia di Africa, dal valore così globale, sta proiettando i propri interessi anche la Russia. Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, a fine agosto ha annunciato un’intesa con l’Eritrea per l’apertura di “un hub logistico nel Paese africano”. È un altro allineamento tra Cina e Russia, maxi argomento della geopolitica mondiale in questo momento: Mosca e Pechino condividono l’interesse profondo alla stabilizzazione in quell’area, e anche in questo caso la presenza italiana come attore collegato non dispiace ai russi, che trovano a Roma uno dei governi occidentali più amici; ed entrambi, Cina e Russia, sono anche in ottimi rapporti con l’Arabia Saudita, così come l’Italia. (Si attendono mosse americane).