Diffamazione a mezzo stampa e danno d’immagine tra comunicazione tradizionale e nuove tecnologie sono temi costantemente sulla breccia. Ne abbiamo parlato con il professor Andrea Camaiora che insegna Litigation pr & crisis presso la 24 Ore Business School, Comunicazione trasparente al master anticorruzione dell’Università degli studi di Roma Tor Vergata, Comunicazione e Ufficio stampa politico istituzionale presso l’Università degli studi Niccolò Cusano.
Ceo dello studio di comunicazione The Skill, ha infatti pubblicato con l’editore Altromondo l’ebook “Appunti su diffamazione a mezzo stampa. Tra comunicazione digitale e rivoluzione della Rete” con la prefazione del procuratore aggiunto della Repubblica di Roma, Antonello Racanelli, che ha proprio la delega ai reati informatici.
Nel suo e-book fa riferimento alla prima legge al mondo che punisce la condivisione dei post offensivi e l’hate speech, la NetzDG. Ci può spiegare la particolarità e l’importanza di questa normativa che viene dalla Germania?
La NetzDG, entrata in vigore all’inizio di quest’anno, al momento è appunto un unicum nelle legislazioni europee. La normativa prevede l’obbligo, per le principali piattaforme social, di adempiere alla rimozione di contenuti illeciti entro delle tempistiche stringenti. La procedura viene seguita e sorvegliata da uno staff di 50 dipendenti del Ministero della Giustizia tedesco: nel caso in cui le disposizioni non vengono rispettate, la sanzione pecuniaria prevista può raggiungere i 50 milioni di euro. La legge pone in capo ai gestori anche l’obbligo di fornire agli utenti una procedura per la trasmissione delle segnalazioni riguardanti contenuti illeciti facilmente individuabile, direttamente accessibile e costantemente disponibile. Quindi la NetzDG obbliga i moderatori delle piattaforme social più note a svolgere attività di annotazione e cancellazione dei contenuti illeciti, senza l’intervento del potere giudiziario. Anche se bisognerebbe riuscire a porre dei limiti attraverso il bilanciamento tra diritti costituzionalmente garantiti, l’exemplum tedesco rappresenta la posa della prima pietra per la regolazione di Internet – finora un mare magnum dominato dall’anarchia – anche negli altri Paesi europei.
I social network hanno “sdoganato” l’insulto e la diffamazione. Le persone hanno la percezione quasi di un mondo parallelo, una zona franca, dove è possibile dire qualsiasi cosa. In realtà però il sistema giuridico è andato avanti considerando il reato di diffamazione, sui social, aggravata perché si utilizza il mezzo della pubblicità. Perché questa decisione? E perché secondo lei tale “pubblicità” dai più non viene percepita?
A differenza di quanto avviene per i media tradizionali, su Internet le notizie e i commenti non sono, assai spesso, frutto dell’attività di professionisti e non sono soggetti ad un regime di controlli professionali interni. Se da una parte tale circostanza può rappresentare un guadagno in termini di libertà e spontaneità della comunicazione, dall’altra si traduce anche in una minore autorevolezza e in un minore affidamento preventivo da parte del pubblico sulla credibilità dei contenuti esposti, o almeno così dovrebbe essere anche se il fenomeno delle fake news è di fronte a noi per smentire queste mie considerazioni. Il riferimento a “qualsiasi altro mezzo di pubblicità” di cui all’articolo 595 c.p., comma 3, ha consentito di ritenere aggravata la diffamazione consumata tramite Internet, un mezzo che potenzialmente ha – al giorno d’oggi – una risonanza nettamente maggiore rispetto a quella della carta stampata, oggetto della tradizionale normativa sulla diffamazione a mezzo stampa. Tuttavia, l’utente non è pienamente consapevole del fatto che non sta comunicando con una ristretta cerchia di persone, ma con un pubblico indefinito, che può diventare anche molto ampio. Il filtro fisico e digitale (ovvero il terminale da cui si scrive e l’identità virtuale che si palesa) sembra essere un ulteriore elemento che fa sentire gli utenti “al sicuro”, proprio come in una realtà parallela svincolata e diversa rispetto a quella fuori dal web. Dico di più. Mi trovavo proprio oggi pomeriggio a Venezia in un importante studio di professionisti che sottovalutavano l’impatto dell’attività di un piccolo blog di provincia in termini di lesione della reputazione e di eventuali conseguenze anche più gravi. La reputazione – se ci comportiamo tendenzialmente in modo corretto e rispettoso delle leggi e delle norme di civile convivenza – è tra le cose più preziose di cui disponiamo, ma anche quella più fragile. Come dice Warren Buffett: “Ci vogliono vent’anni per costruirsi una reputazione, ma cinque minuti per rovinarsela”.
Quando si parla di social e giovani purtroppo ultimamente si parla anche di cyberbullismo. Che tipo di reati compie il cyberbullo e che identikit ha nella vita reale?
Partiamo da alcune cifre: secondo dati diffusi da Moige-La Sapienza, nel 2017 alla polizia in questo ambito sono pervenute 354 denunce, tra le quali ben 87 sono per il reato di diffamazione online. Proprio quell’anno, una legge ad hoc ha coperto un vuoto normativo risolto fino ad allora solo per via giurisprudenziale. Ai sensi dell’art.1 della legge 71, infatti, per bullismo telematico si intende «qualunque forma di pressione, aggressione, molestia, ricatto, ingiuria, denigrazione, diffamazione, furto d’identità, alterazione, acquisizione illecita, manipolazione, trattamento illecito di dati personali in danno di minorenni, realizzata per via telematica, nonché la diffusione di contenuti on line aventi ad oggetto anche uno o più componenti della famiglia del minore il cui scopo intenzionale e predominante sia quello di isolare un minore o un gruppo di minori ponendo in atto un serio abuso, un attacco dannoso, o la loro messa in ridicolo». Fra gli altri reati, dunque, anche la diffamazione è esplicitamente elencata tra le fattispecie. Nel 2014, tre anni prima che il vuoto normativo relativo al cyberbullismo venisse colmato, secondo dati della polizia postale, la maggior parte delle denunce per cyberbullismo, il 33%, aventi vittime dei minorenni con età tra i 14 e i 17 anni nel corso del 2013 erano relative al reato di diffamazione. Per quanto riguarda invece il profilo soggettivo, mentre nel bullismo solo il cosiddetto bullo, il gregario e la vittima provocatrice agiscono, nel cyberbullismo chiunque, anche chi è vittima nella vita reale o ha un basso potere sociale, può diventare cyberbullo. Per precisare, uno studio del 2007 ha dimostrato come molti cyberbulli, in realtà, siano anche bulli nella “vita reale”. Ma il bullo si nasconde anche dietro volti apparentemente insospettabili. Un esempio? Ricordo bene un sondaggio realizzato dall’istituto statunitense Gallup che rivelava come il 51% dei bulli a scuola fosse di sesso maschile. Dunque nelle scuole americane 1 bullo su due era una bambina/ragazzina!
Si è soliti pensare ai social, ma ormai nelle mail e nelle chat, anche private, si incorre in episodi deplorevoli e offese, oltre che al divulgare notizie false. In questo campo la giurisprudenza come si sta muovendo?
Dal punto di vista normativo, la corrispondenza privata telematica è ormai equiparata, in forza della legge 547/1993, alla ormai desueta corrispondenza cartacea. In materia, inoltre, c’è un importante decisione della Corte di Cassazione: la sentenza n. 2333/2016 ha stabilito che integrano il reato di diffamazione aggravata offese come “cialtrone” e “fascista”, rivolte – nel caso preso in esame – al conduttore di una trasmissione radiofonica inviate a mezzo e-mail. L’agente aveva inviato la mail dal contenuto diffamatorio alla redazione di una nota trasmissione radiofonica. L’e-mail in questione conteneva una serie di epiteti negativi rivolti al conduttore della trasmissione suddetta e, siccome veniva inviata alla redazione, la Suprema Corte ha ritenuto sussistente il requisito della comunicazione con più persone, terze rispetto all’agente e alla persona offesa. Diversa è invece la chat, che può avere anche più di un destinatario ed essere dunque diretta a un gruppo definito di diverse persone. La possibilità di comunicare in forma privata o pubblica ha dei risvolti giuridici che non possono essere sottovalutati. Infatti, in relazione alla comunicazione privata, è chiaro che essa consente il dialogo anche tra soggetti che si scambiano delle informazioni illegali, con l’unica diversità che, rispetto alle comunicazioni telefoniche, questo nuovo universo presenta delle difficoltà oggettive nella individuazione degli effettivi utenti. Una volta individuato il canale pubblico di discussione che si ritiene appropriato, vi si può accedere, ed è come se ci si trovasse in una stanza o piazza virtuale in cui ciascun utente è identificato dal proprio nickname. Si può così dar luogo ad un dialogo proprio come avverrebbe nella realtà, con l’unica differenza che le parti sono lontane, ciascuna comodamente seduta davanti al proprio personal computer. Nel caso di affermazioni diffamatorie, quindi, nulla nega che vengano “pronunziate” in pubblico.
Che tipo di differenza c’è tra diffamazione a mezzo stampa sulle testate tradizionali e quelle on line?
Nella disciplina vigente, la diffamazione consumata a mezzo telematico è riconducibile all’art. 595, comma 3, c.p., nella misura in cui la norma penale equipara la diffamazione commessa a mezzo stampa con quella posta in essere attraverso “qualsiasi altro mezzo di pubblicità”. Questo vulnus normativo ha posto problemi applicativi e interpretativi della norma penale ai quali ha dovuto sopperire una giurisprudenza sempre più operativa. Una prima grande differenza risiede nella registrazione, obbligatoria per le testate tradizionali, facoltativa per quelle online. Una proposta di legge presentata in parlamento, vorrebbe estendere la regolamentazione dedicata alle testate tradizionali, anche alle testate online registrate, mentre per quelle non registrate continuerà ad applicarsi l’art. 595 c.p. Un’altra profonda differenza risiede nelle garanzie di cui godono questi mezzi di diffusione. Per le testate telematiche, infatti, le garanzie sono in questo ambito addirittura maggiori rispetto a quelle di cui godono le pubblicazioni cartacee, non essendo ammissibile alcuna forma di sequestro nei confronti della stampa on line: non soltanto quello preventivo, stante il disposto dell’art. 21, comma 3, Cost., ma neppure il sequestro probatorio, atteso che la disciplina dettata dal R.D.L. n. 561/1946 (che consente di sequestrare non oltre tre esemplari) risulta evidentemente inapplicabile allo strumento informatico. Nessuna differenza di disciplina rispetto alla stampa cartacea c’è invece in tema di pubblicazioni oscene diffuse tramite internet; pertanto, laddove il loro inserimento in una testata telematica rappresenti soltanto il veicolo di un messaggio pubblicitario ed esse non costituiscano una forma d’arte o di manifestazione del pensiero, troverà applicazione la disciplina presieduta dall’art. 21, comma 6, della Carta fondamentale, che non soltanto vieta espressamente le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e, più in generale, tutte le manifestazioni contrarie al buon costume, ma dispone che la legge stabilisca “provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni”.
I temi che abbiamo toccato ci riportano a un’altra materia, fondamentale e altrettanto importante: la lesione della reputazione personale e il danno d’immagine. Lei è un esperto di comunicazione e opera proprio nel settore delle litigation pr e della comunicazione di crisi, affrontando e prevenendo il danno di immagine. Cosa può dirci in merito?
Il danno d’immagine lede reputazione e identità personale di un individuo, ossia l’insieme degli attributi che lo identificano nel contesto sociale o professionale di riferimento. Esiste però anche la tutela delle persone giuridiche. E ai fini del risarcimento del danno non è sufficiente la prova della lesione, ma è necessario dimostrare anche il danno subito e il nesso di causalità. Il danno d’immagine, sul piano civilistico, può combinarsi con fattispecie penali, in primis quella che abbiamo affrontato, ovvero il reato di diffamazione.
Ma proviamo a fare alcune considerazioni pratiche. Anzitutto bisogna valutare il problema: un’entità che è commisurata alla notorietà, al valore e alle potenzialità del soggetto che subisce un danno di immagine. Non siamo tutti uguali. E non tutti valiamo allo stesso modo, specie in certi contesti. Esiste una profonda differenza tra le dimensioni del danno di immagine che può essere causato a “Pasta Billa” o quello prodotto a “Pasta Barilla”. Ciò è altrettanto vero per le persone. L’onorabilità del signor Rossi merita tutela quanto quella del capo del governo, ma a parità di offese, accuse infondate, campagna denigratoria, scandalo inesistente, c’è un danno d’immagine assai differente subito dal signor Rossi dipendente delle Poste rispetto al professor Bianchi, docente di etica/ volto televisivo/ manager affermato/ protagonista delle istituzioni. Ciò è vero non solo per persone giuridiche o fisiche, ma anche per ‘simboli’: pensiamo alla differente celebrità e attrazione della torre di Vattelapesca e della torre di Pisa, del museo di Chissàdove e dei musei vaticani…
Assistiamo ogni giorno a casi di diffamazione online che vanno a distruggere figure spesso incolpevoli con insinuazioni scabrose o, direttamente, notizie false: spesso diventa impossibile per il soggetto continuare serenamente la propria carriera, a meno di attuare una strategia comunicativa talmente forte da imporsi su quanto di lesivo è stato detto. Anzi, la più parte delle carriere di persone perbene e rispettabili nella nostra storia recente sono state distrutte dal processo mediatico che condanna sulla base di presupposti sbagliati, aggravanti inesistenti e ipotesi accusatorie traballanti quando non largamente infondate! Per questa ragione i campanelli d’allarme di una campagna denigratoria non vanno sottovalutati. Occorre reagire, contingentare, rispondere e alzare la voce per zittire diffamatori, chiacchieroni, critici che muovono da elementi sbagliati e veri e propri sciocchi. Per fare questo servono anzitutto validi legali, e ce ne sono, che però agiscono con tempistiche non immediate, e comunicatori esperti che possono da subito arginare la situazione, rompere l’assedio e ribaltare la gogna, dentro la quale – talvolta anche con grandi interessi che agiscono dietro le quinte – si vorrebbe strangolare una persona, una società, una forza politica, un’istituzione.
(Foto: Petrussi)