La buona notizia è che la Banca centrale turca resta un’istituzione indipendente, o almeno ci prova. La cattiva notizia è che questo sforzo potrebbe non bastare a salvare la lira turca da una svalutazione che sembra non avere fine. La Merkez Bankasi oggi pomeriggio ha aumentato i tassi di interesse del 6,25%, facendoli passare dal 17.75% al 24%. Si tratta dell’aumento più consistente da quando il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan ha preso la guida del Paese, nel 2002. E arriva proprio mentre il capo di Stato è accusato di essere entrato a gamba tesa anche nelle decisioni sulle politiche economiche e finanziarie.
Proprio Erdogan, questa mattina, prima che la Commissione delle politiche monetarie andasse in riunione, aveva auspicato un taglio dei tassi di interesse, accusando la banca centrale di essere la maggiore responsabile dell’aumento dell’inflazione. Da tempo il Capo di Stato si scaglia contro l’Istituzione, che sta cercando di commissariare da anni. E per anni proprio la Commissione politiche monetarie ha subito le pressioni di Ankara, che ha sempre chiesto di tenere una condotta ‘allegra’ sui tassi di interesse, mantenendo basso il costo del denaro per non frenare la crescita del Pil.
E in effetti il pil ha continuato a crescere, ma male. Il risultato di questa politica sono mercati ballerini, una crescita spinta soprattutto dal consumo interno, speculazioni delle quali chiaramente si avvantaggia un ristretto giro di persone e una bolla immobiliare che potrebbe scoppiare presto.
La verità è che alla banca centrale oggi è stata necessaria una bella dose di coraggio. Appena ieri, Erdogan si è nominato a capo del maxi fondo sovrano da 200 miliardi di dollari istituito nel 2016, appuntando come vice suo genero, incidentalmente anche ministro delle Finanze, Berat Albayrak. Un gesto che a molti è apparso come un avvertimento. Dopo la politica e le istituzioni, adesso la famiglia presidenziale mette le mani anche sulla cassa.
La Banca Centrale con un aumento inedito dei tassi di interesse, ha voluto dimostrare che nel Paese c’è ancora chi vuole fare gli interessi di investitori e imprenditori. Nel comunicato si legge che l’aumento dei tassi è stato fatto appositamente per favorire l’abbassamento dell’inflazione e la crescita della domanda interna, che, non ce lo dimentichiamo, è una delle voci più importanti di quelle che compongono il Pil turco.
Anche chi non ha una cultura economica, non farà fatica a capire che una politica fiscale più serrata rende le oscillazioni del cambio meno pericolose e per un Paese con un export ad alta intensità di importazione come la Turchia non è affatto un dato secondario. Mantiene l’inflazione nei livelli di norma e rende la crescita nazionale forse meno effervescente ma certo più affidabile sulla lunga durata.
Il problema, ed è un problema grosso, destinato a non esaurirsi, è che il presidente Erdogan si oppone a questa ricetta non perché ne abbia una alternativa che reputa più efficace, ma in buona dose per motivi ideologici. Sembra che per il presidente in questo momento sia molto più importante parlare di complotto ai danni della Turchia che assicurarsi sul buono stato di salute dell’economia nazionale.
Erdogan sa perfettamente che quello che chiama ‘complotto’ sono in realtà titubanze di investitori e mercati nei confronti di un accentramento di poteri costante, di cui beneficerà uno stretto giro di persone e Paesi e che difficilmente saranno quelli con cui la Turchia è stata alleata per anni.
Lo sa bene Donald Trump, che negli ultimi mesi ha messo non poco in difficoltà la Mezzaluna, contribuendo allo choc della valuta nazionale. Il problema oltre che economico è politico. Un Erdogan che critica la Banca Centrale e che è tutto preso a parlare di estromissione del dollaro dagli scambi commerciali fra due Paesi rimane un sorvegliato speciale degli investitori internazionali. Dove l’alleanza con Putin e i 15 miliardi di dollari del Qatar possono aiutarlo fino a un certo punto.