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Cina e infrastrutture critiche. Bassanini spiega rischi e opportunità

bassanini, open fiber

Infrastrutture, telecomunicazioni, energia, commercio. “A volte gli investimenti necessari per la crescita del Paese richiedono la presenza dello Stato”. È una lettura controcorrente quella di Franco Bassanini, presidente di Open Fiber, già presidente di Cassa Depositi e Prestiti, più volte ministro, che Formiche.net ha potuto intervistare a margine del Forum The European House Ambrosetti ospitato come ogni anno a Cernobbio nella cornice di Villa D’Este. Mentre governo e opposizioni sono presi dal dibattito sulle nazionalizzazioni Bassanini invita ad abbandonare ogni approccio ideologico e a giudicare caso per caso. Non sempre l’intervento del pubblico è un male, specialmente se i privati che investono nelle infrastrutture non hanno una visione di lungo periodo. Gli investimenti cinesi in porti esteri per il progetto One Belt One Road, meglio se senza acquisirne il controllo, di cui si sono occupate le recenti missioni in Cina del ministro dell’Economia Giovanni Tria e del sottosegretario al Mise Michele Geraci, dimostrano che interventi pubblici e ammodernamento tecnologico possono stare insieme. Ma allo stesso tempo, il porto del Pireo docet, non devono fare abbassare la guardia.

Come giudica la recente missione del governo Conte in Cina?

Il governo dispone di un sottosegretario come Michele Geraci che conosce alla perfezione il mondo cinese e parla il mandarino, e di un ministro conoscitore della Cina come Giovanni Tria. È bene utilizzare al massimo le potenzialità che l’interscambio fra Italia e Cina può offrire per trovare nuovi sbocchi alle nostre produzioni.

Perché la Cina è tanto importante per l’Italia?

La Cina è un interlocutore fondamentale, forse quasi quanto gli Stati Uniti. In questi anni nel dragone è nata una grande classe media, che dispone di notevoli risorse finanziarie e può costituire uno straordinario mercato per settori produttivi in cui noi eccelliamo, dalla moda all’alimentare fino al turismo.

C’è da dire che rispetto alla missione a Pechino di Pier Carlo Padoan del 2014 quella del governo gialloblu è sembrata modesta..

Non si tratta di fare confronti. Io ero con Padoan durante la sua missione in Cina, quando era già ministro delle Finanze da un anno e aveva potuto preparare nei dettagli la trasferta. Quello di Tria è stato un primo contatto che ha già dato i suoi risultati. Ho parlato con l’ad di Cassa Depositi e Prestiti Fabrizio Palermo e mi ha espresso grande soddisfazione per il viaggio.

Entusiasmi a parte, esiste un fattore sicurezza da tenere in considerazione quando si cede parte dei propri asse strategici..

Intendiamoci. Dobbiamo porci questo problema se alla Cina, o a un altro Paese straniero, viene dato il controllo di asset strategici italiani. Il discorso cambia se i cinesi investono senza pretendere di avere in cambio il controllo. Quando ero presidente di Cassa Depositi e Prestiti concludemmo una serie di accordi importanti. I cinesi, apportando capitali ma anche importanti sbocchi commerciali, presero il 40% di Ansaldo Energia.

Il risultato?

Il risultato è che non c’è alcun rischio che assumano il controllo, che resta saldamente in mani italiane. Il 60% è ancora in mano a Cdp. I cinesi hanno chiesto diverse volte di aumentare la quota ma hanno ricevuto un no in risposta. Ansaldo Energia ha così potuto svilupparsi in una fase di grandi consolidamenti in quel segmento di mercato.

Cioè?

Allora Ansaldo era il quinto produttore al mondo dopo Siemens, Alstom, Mitsubishi e General Electric. Ora la francese Alstom è scomparsa e una parte è stata acquistata da Ansaldo. L’accordo con Shanghai Electric ha aperto ad Ansaldo Energia il mercato cinese delle turbine a gas, che con il processo di de-carbonizzazione avviato dal governo centrale è diventato il più grande al mondo.

All’epoca, quando lei era presidente di Cdp, fece molto discutere l’accordo per la cessione ai cinesi di State Grid del 35% di Cdp Reti, il veicolo che gestisce gli investimenti di asset strategici come Terna e Snam..

Non ho mai capito le polemiche su un presunto impossessamento di tecnologie che non c’è mai stato. I cinesi sono arrivati, hanno vinto una gara internazionale facendo l’offerta migliore e hanno acquistato il 35% di Cdp Reti. Una holding non quotata, che dunque non permette di liquidare la partecipazione dall’oggi al domani. Cdp ha saldamente in mano il 60%, fondazioni e casse di previdenza italiane il 5%. Allora i cinesi misero sul tavolo 2,2 miliardi di euro. Una cifra considerevole, che ha permesso a Cdp di riequilibrare i suoi capital ratio dopo aver realizzato un’operazione fondamentale per ridurre il debito pubblico: acquistare dallo Stato le partecipazioni in Sace, Fintecna e Simest.

A proposito di asset strategici, il governo cinese ha già acquistato diversi porti europei per portare avanti il progetto One Belt One Road, la nuova Via della Seta. Il caso del porto del Pireo, che ha ceduto ai cinesi di Cosco il 67% della quota, ha destato preoccupazioni per le ricadute politiche dell’accordo.

Non ho elementi per valutare cosa è successo al porto del Pireo. Non mi stupisce che il governo cinese punti alle infrastrutture portuali. Oggi i porti sono persino più importanti dei trafori alpini. Se dovessi scegliere se investire sulla Tav Torino-Lione o nei porti di Genova e Trieste sceglierei senza dubbio la seconda opzione. Ovviamente i due investimenti non sono alternativi. Porti e trafori (il Brennero) sono per molti versi complementari.

Perché?

Il sistema globale ci imporrà presto di fare nei nostri porti, in primis quelli liguri e nord adriatici, non piccoli aggiustamenti, ma un grande investimento per intercettare una parte importante dei traffici commerciali globali. Ha senso che i macchinari prodotti dalle nostre brillanti imprese metalmeccaniche e destinati in Indonesia, Cina, India, finiscano sopra treni per Rotterdam soltanto perché i nostri porti non hanno infrastrutture adeguate?

Il sottosegretario Geraci ha garantito a Formiche.net che il governo non vuole svendere asset strategici. I cinesi oggi guardano al porto di Trieste. C’è da preoccuparsi?

Se si parla, come nel caso greco, di cedere il controllo del porto ai cinesi, francamente ci andrei cauto. Le infrastrutture strategiche di un Paese devono restare nelle sue mani, per due ragioni. Prima di tutto non devono essere piegate a interessi terzi che possono risultare conflittuali. Seconda ragione: lo Stato è l’unico investitore che sicuramente accoppia una visione di lungo termine con attenzione alle esternalità di sistema che l’investimento produce.

Ci spieghi meglio.

È un ragionamento che vale per le infrastrutture di trasporto, dove lo Stato italiano ha mantenuto la proprietà e ha dato in concessione la gestione (concessioni non sempre costruite bene). Ma anche per le grandi infrastrutture elettriche, che infatti sono in mano a società con un azionista pubblico di riferimento come Snam e Terna o la rete di distribuzione di Enel e Italgas.

Vale anche per le telecomunicazioni?

Nelle telecomunicazioni L’incumbent pubblico che aveva costruito l’infrastruttura in rame, una vollta privatizzato ha molto frenato sugli investimenti necessari per la rete di nuova generazione in fibra. Ha sostenuto che in Italia non ci fosse la domanda, a differenza che in Spagna, Estonia e Portogallo. Lo Stato ha dovuto mettere in campo Open Fiber per accelerare i tempi della rete di nuova generazione.

Il governo Conte, soprattutto nella sua componente pentastellata, è accusato di avere una passione per le nazionalizzazioni (che al momento rimangono sulla carta). Lei che idea si è fatto?

Gli approcci ideologici in questa materia non hanno senso. Ci sono casi, specialmente per i progetti greenfield nel settore delle infrastrutture, in cui c’è bisogno di avere investitori di lungo termine. Nel mondo non ce ne sono tanti, perché la crisi e le nuove regolazioni finanziarie hanno reso questi investimenti onerosi, almeno per le banche che per cento anni in Italia sono state il principale finanziatore del settore. Per questo a volte gli investimenti necessari per la crescita del Paese richiedono la presenza dello Stato nel settore delle infrastrutture, almeno come catalizzatore e promotore dell’intervento degli investitori di lungo termine in questa asset class.

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