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Perché Israele è preoccupato delle infiltrazioni cinesi nel Mediterraneo

Parlando a fine agosto in una conferenza oganizzata dal  Research Center for Maritime Policy and Strategy dell’Università di Haifa, il suo direttore, Shaul Chorev, ha sganciato una bomba: occhio ai cinesi nel Mediterraneo, noi israeliani dobbiamo fare di più per difendere le nostra sicurezza nazionale dalle penetrazioni di Pechino.

Chorev è un alto ufficiale dei riservisti che ha servito, tra vari ruoli, come comandante della Marina e presidente della Commissione per l’Energia atomica: se si aggiunge al suo ruolo che il suo intervento è stato tenuto nell’ambito di un workshop internazionale sulla sicurezza futura nel Mediterraneo orientale, allora il peso delle sue dichiarazioni assume una certa dimensione (e spesso capita che i governi facciano uscire preoccupazioni o policy anticipandole tramite centri studi).

Quel tratto di mare è di estremo interesse strategico: è lì che si trovano i grandi giacimenti scoperti da Eni, su cui l’azienda italiana sta lavorando su concessione egiziana, ma ci sono anche i reservoir israeliani Leviathan e Tamar, o Afridite al largo di Cipro. Aree in cui gli interessi energetici materializzano l’essenza geopolitica: da lì partono per esempio i gasdotti con cui Israele ha chiuso un deal storico con gli egiziani qualche mese fa; Roma e Cairo stanno andando oltre la crisi creata dal caso Regeni; le partnership commerciali dettano le posture dei governi; tutto nel tratto di mare che sfiora la Siria, bacino colturale di dinamiche politiche globali.

Parlando di un’impresa cinese che inizierà a gestire il porto di Haifa (la Shanghai International Port Group, che ha ampliato i moli e ha un cronoprogramma per essere operativa nel 2021 con un contratto venticinquennale), Chorev ha detto che Israele deve creare “un meccanismo che esamini gli investimenti di Pechino per garantire che non mettano a rischio gli interessi di sicurezza di Israele” – nei giorni scorsi, il quotidiano Haaretz ha scritto di un’altra ditta cinese che ha vinto la gara d’appalto su un altro porto israeliano, ad Ashdod, nel sud.

“Quando la Cina acquisisce i porti”, ha detto Chorev, “lo fa con il pretesto di mantenere una rotta commerciale dall’Oceano Indiano attraverso il Canale di Suez verso l’Europa, come il porto del Pireo in Grecia. Ma un orizzonte economico come questo ha un impatto sulla sicurezza? Noi in Israele non stiamo valutando sufficientemente questa possibilità”.

L’interesse sulla presenza cinese è argomento piuttosto attuale: da quando l’espansione discreta promossa dal presidente Xi Jinping negli anni passati, nell’ottica infrastrutturale della Nuova Via della Seta (i calcoli del CSIS dicono che Pechino ci investirà circa 8 trilioni di dollari), ma anche nella dimensione geopolitica, è diventata più evidente e soprattutto più dibattuta – complice anche l’allarme alzato dall’amministrazione Trump, che con la Cina sta combattendo per mantenere il ruolo di potenza globale di riferimento.

Invitata alla conferenza c’era anche una delegazione del governo americano. Uno dei funzionari senior inviati da Washington, Gary Roughead, ex capo delle operazioni navali, ha ventilato un’ipotesi: la Sesta Flotta statunitense in futuro avrebbe anche potuto pensare ad Haifa come hub, ma alla luce dell’acquisizione cinese, la questione non è più all’ordine del giorno (è per certi versi una buona notizia per l’Italia, visto che finora la Sesta, che è la flotta della Us Navy che gestisce il Mediterraneo, ha la sua base principale alla Naval Support Activity situata a lato dell’aeroporto Capodichino di Napoli, ndr).

Per Chorev l’argomento è stringente, visto che ad Haifa si trova la flotta di sottomarini strategici israeliani, e la presenza cinese potrebbe mettersi di traverso alla cooperazione tra Israele e Stati Uniti. È del tutto logico pensare che la Cina possa sfruttare Haifa anche come scalo per attività di carattere militare, e gli americani non intendono sovrapporsi in modo così ravvicinato nello stesso bacino.

Gli Stati Uniti temono che le loro navi finiscano sotto la lente, fisica e cyber, cinese: “I sistemi di informazione e le nuove infrastrutture integrate nei porti e la probabile presenza di sistemi di sorveglianza elettronica metterebbero a repentaglio le informazione e la sicurezza informatica della Us Navy “, ha spiegato Roughead. “Questi fattori non escludono visite in porto, ma impediscono l’homeporting e altri progetti e iniziative protratti nel tempo” tra Israele e Usa ad Haifa.

Chorev s’è lamentato: ha ammonito gli americani che si stavano concentrando troppo sul Persico (dove c’è un confronto con l’Iran piuttosto spinto dai paesi del Golfo, soprattutto Emirati Arabi e poi i sauditi) e sul Mar Cinese (dove Pechino rivendica diritti territoriali contro altri alleati americani per isolotti apparentemente insignificanti, che però segnano le rotte di tratte commerciali super-nevralgiche tra Pacifico e Indiano).

Posizionamenti che vanno a discapito del Mediterraneo, che hanno permesso l’ingresso anche della Cina nel bacino, dove ormai la Russia è stanziale, con il rafforzamento in Siria alla base navale di Tartus. Pechino da sempre è contraria alla creazione di basi all’estero (la prima è stata costruita a Gibuti e inaugurata da non molto, a poca distanza da un’importante istallazione americana): le attività mediterranee non sono finalizzate semplicemente alla presenza armata, ma Chorev fa notare che le infiltrazioni commerciali-logistiche-economiche possono creare un contesto ibrido per la Cina in cui muoversi anche militarmente e giocare la propria dissuasione.

(Foto: US Navy, un ingresso del cacciatorpediniere USS Porter al porto di Haifa)


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