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Così la Cia colpirà il terrorismo libico dal Niger (buon per l’Italia)

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La Cia è pronta a espandere la presenza di droni armati in una base nigerina a Dirkou, in mezzo al Sahara, con cui condurre operazioni contro obiettivi dello Stato islamico e di al Qaeda nella fascia meridionale della Libia, dove tra le dune del deserto avvengono spostamenti e attività di contrabbando degli uomini dei gruppi terroristici.

La campagna di attacco attraverso i velivoli senza piloti è forse la principale strategia studiata dall’amministrazione Obama per contrastare il terrorismo: attacchi mirati contro leader radicali — gestiti da Cia e Pentagono — sono stati compiuti in diversi paesi, dallo Yemen contro l’Aqap (la potente filiale qaedista locale) ai talebani afghani e pakistani, fino all’operazione contro l’Is in Siria e Iraq.

L’espansione al Maghreb delle missioni segrete dell’intelligence arriva dopo che la fascia del Corno d’Africa era già luogo di caccia della Drone War, con i qaedisti somali di al Shaabab finiti più volte sotto i missili Hellfire dei Predator che gli Stati Uniti gestiscono da Camp Lemonnier, base aerea americana a Gibuti.

Finora, diverse missioni contro i miliziani dell’Is e di al Qaeda in Libia erano state dirette da Sigonella, dopo che l’Italia, un paio di anni fa, ha dato luce verde sulla presenza di droni armati nella base siciliana – che non è l’unica che gli americani utilizzano per missioni di sorveglianza e raccolta informazioni sulla Libia e sulla Tunisia (c’è Trapani e anche Pantelleria) in nome della partnership contro il mondo del terrore da sempre condivisa da Roma e Washington.

Attacchi puntuali, come quello del 28 agosto, con cui il Pentagono – che è responsabile delle missioni dall’Italia – ha deciso di eliminare Walid Abu Hreiba nei pressi di Bani Walid (est del paese, a sud di Tripoli e Misurata). Abu Hreiba era un ex qaedista passato con l’Is, che dal 2013 ha avuto un ruolo chiave nel costruire il network baghdadista che ha creato la fiorente capitale libica del Califfato nell’importante hotspot di Sirte, sulla costa orientale libica (Sirte è stata ripresa due anni fa da una campagna ibrida in cui le forze misuratine alleate del governo onusiano hanno ricevuto sostegno a terra da qualche sparuto gruppo di consulenti militari occidentali e dall’aria da una martellante campagna targa Usa: nell’ambito di questa missione, l’Italia ha installato a Misurata un ospedale da campo con cui assistere i miliziani anti-Califfo).

L’uso dei droni è un argomento che si è portato dietro dozzine di controversie e critiche contro Barack Obama. Il punto è legale, perché gli attacchi mirati significano che il governo degli Stati Uniti autorizza l’eliminazione del nemico attraverso un assassinio diretto; ma c’è anche un risvolto che riguarda i danni collaterali. Ai bombardamenti di precisione – alcuni talmente sofisticati che hanno ucciso soltanto il guidatore salvando i passeggeri di una stessa automobile attraverso missili speciali depotenziati – si abbinano effetti collaterali a volte devastanti: colpiti matrimoni, case, scuole, obiettivi civili finiti per errore nel target dei missili teoricamente intelligentissimi.

Tempo fa la Reuters pubblicò un reportage che spiegava come i diversi errori durante questo genere di operazioni in Yemen hanno favorito al Qaeda: i parenti delle vittime innocenti finivano per radicalizzarsi sotto il peso della propaganda jihdista. In certe circostanze poco importa se le campagne con i droni permettono nella stragrande maggioranza dei casi la riduzione al minimo delle vittime civili: è quella minoranza che fa la differenza.

Obama negli ultimi periodi del suo mandato aveva cercato di ricostruire la catena di comando: se i bombardamenti coi droni fossero passati sotto la mano dei generali, ci sarebbe stata maggiore trasparenza secondo il suo modo di vedere, rispetto alla chiusa Cia. Ma sotto Trump le cose ritornano al punto iniziale, quando la Drone War era gestita soprattuto dalle agenzie di intelligence, che avevano facoltà di agire direttamente sulla base delle loro informazioni: almeno dal Niger e per il sud libico.

La presenza dei droni in Niger non è una novità, ma finora sono stati utilizzati solo per osservazioni. È una necessità che per gli Stati Uniti è diventata pubblica quando quattro Berretti Verdi sono stati uccisi da un gruppo affiliato allo Stato islamico. Ma in Niger gli americani combattono i gruppi affiliati alle due grandi entità radicali islamiche (Is e al Qaeda) da tempo, e con loro ci sono soldati francesi e tedeschi, e pure un ristretto contingente italiano, in una cooperazione che Washington non fa mancare agli alleati europei.

La situazione è complessa: il Paese è considerato una delle principali rotte di passaggio dei migranti che cercano di raggiungere la Libia per attraversare il Mediterraneo e arrivare in Europa. I gruppi radicali in questi territori sono invischiati nelle attività di contrabbando, anche quelle degli esseri umani, e rappresentano dunque un problema doppio, perché in Libia e dai suoi campi di addestramento sono passati diversi dei terroristi che hanno colpito l’Europa negli anni scorsi.

Il Fezzan, il sud libico senza legge, è il paradigma perfetto di questa situazione, con gruppi jihadisti che mentre addestrano militanti si finanziano col traffico di profughi (e di armi, droga, sigarette a quant’altro): per questo è un’area di interesse strategico per gli Stati Uniti, che possono giocare le loro carte in Libia, dove non hanno interessi politici forti, ma più che altro vogliono svolgere un ruolo di counter-terrorism – che si sposa piuttosto bene con l’intento di stabilizzazione che l’Italia sta svolgendo in partnership con diversi altri attori europei.

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