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Ecco come la Russia interferisce con le operazione anti-Isis americane

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Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, sulla statale Interfax ha fatto un’uscita priva di logica apparente, ma che nasconde certi interessi di Mosca sulla Siria. Vediamo: “L’unica minaccia alla sovranità siriana proviene dalla sponda orientale del fiume Eufrate sotto il controllo degli Stati Uniti”, ha detto Lavrov, riferendosi ad alcune accuse alzate dall’opposizione al regime di Bashar el Assad (che la Russia protegge) a proposito di un accordo chiuso da Mosca con Ankara per bloccare l’offensiva su Idlib – ultima, enorme enclave ribelle su cui ancora gli assadisti non hanno messo le mani perché la sua stessa costituzione è stata frutto di un accordo tra Russia, Turchia e Iran, che ha rischiato di crollare prima del negoziato russo-turco di una settimana fa.

Lavrov ha continuato parlando proprio dell’accordo stretto con i turchi per evitare il disastro umanitario a Idlib – disastro che sarebbe stato causato da un’offensiva lealista spregiudicata a cui i russi stessi avrebbero, come in altre occasioni, fornito copertura aerea – sempre per restare sulla logica) – e ha detto che l’intesa con Ankara servirà “in primo luogo a sradicare la minaccia terroristica dalla Siria”. D’illogicità, si diceva: la presenza statunitense nella parte orientale dell’Eufrate è legata proprio alla gigantesca quanto efficace missione americana di counter-terrorism contro il Califfato. Una guerra contro il terrorismo arrivata verso la stretta finale proprio su quell’ultima misera area che è rimasta in mano ad Abu Bakr al Baghdadi, grazie al martellamento costante degli aerei della Coalizione internazionale a guida americana, abbinato al lavoro fatto dai curdi siriani (partner occidentali) a terra.

Se l’Is non è più che quel che era in Siria è grazie agli americani, non certo ai russi, che invece dal settembre 2015 – ossia un anno dopo l’inizio della missione a guida Usa contro il Califfo – sono entrati in guerra in Siria col solo scopo di difendere i propri interessi, creare interferenze di vario e ampio genere sfruttando il contesto siriano, e proteggere Assad (che un alleato che i russi non considerano in quanto tale, ma in quanto capo di un regime che riescono completamente a controllare e che ad oggi ha un debito enorme con Mosca: senza i russi, e agli sforzi iraniani, il rais siriano sarebbe finito senza testa da un pezzo).

Eppure Lavrov parla di “minaccia alla sovranità”, tirando in ballo un termine che piace moltissimo ai complottisti particolarmente avvezzi alla propaganda russa. Da notare che fino alla scorsa settimana sotto questo filone l’argomento diffuso dal Cremlino era un altro: si parlava di un fantomatico attacco chimico organizzato a Idlib come false flag per incolpare la Russia. La storia diceva che i gruppi ribelli nella città si sarebbero auto-inferti la purga chimica per sollecitare un intervento esterno, che però da sette anni non c’è mai stato e nessuno stato al mondo ha intenzione di smuovere – è evidente che era una via preventiva usata da Mosca per evitarsi pressioni mediatiche nel caso in cui agli alleati nel regime fosse slittata la frizione e avessero scelto la via del gas come nei tre casi internazionali in cui hanno gassato i civili di Damasco (agosto 2013, 1114 morti accertati), Khan Sheikhoun (aprile 2017, cento morti), Ghouta (aprile 2018, quaranta morti), e come dozzine di altre volte che hanno avuto minor risalto mediatico.

In quei giorni, invece, le intelligence di Stati Uniti, Francia, Regno Unito e Germania avevano informazioni piuttosto affidabili e molto meno propagandistiche sul fatto che Assad avrebbe usato il gas per attaccare i ribelli di Idlib: chiare al punto che i primi tre paesi, e i tedeschi ci stavano pensando seriamente, avevano già organizzato i piani per una rappresaglia violenta su Damasco. D’altronde, Assad è allo stremo delle forze: i soldati sono pochi, i gruppi sciiti mobilitati dall’Iran combattono da sette anni e hanno anche loro difficoltà, i ribelli a Idlib sono un numero compreso tra 70 e 100 mila, e gassare gli avversari è una via rapida d’attacco. Questi presupposti stanno anche dietro al motivo per cui Mosca ha accettato di fermare l’offensiva e accontentare la Turchia.

Il 10 settembre i curdi alleati degli americani (e degli altri paesi occidentali coinvolti nella missione anti-Isis in Siria, dunque anche dell’Italia) hanno lanciato quella che chiamano la Fase 3 della “Operazione Roundup”, che ha come obiettivo la striscia di terra tra Hajine e Al-Shaafa, due località che si trovano nella zone in cui il corso del fiume Eufrate passa il confine siriano con l’Iraq. È la parte terminale del cosiddetto Corridoio dell’Eufrate, in cui da diversi mesi la gran parte dei miliziani baghdadisti si sono rifugiati e con loro potrebbe esserci anche il Califfo. “Potrebbe”, perché l’apparato di sicurezza che protegge Baghdadi è estremamente rigoroso e dunque potrebbe essere nascosto ovunque, anche se il sistema è stato perforato per tutta l’intera catena di comando dalle missioni di intelligence americane e alleate con cui via via negli anni sono stati eliminati tutti i vertici del Califfato.

Quest’ultimo citato, se vogliamo, è un altro prodigio della missione anti-terrorismo ad alta qualità degli Stati Uniti, che al di là di quel che dice Lavrov, sono presenti con poco più di duemila uomini, forze speciali che aiutano nella lotta anti-Isis, a differenza di Mosca che ha migliaia di soldati regolari e contractors, consiglieri politici e ha installato di forza due basi militari, una navale e una aerea, lungo la fascia mediterranea siriana.

Il motivo per cui la Russia alza un’illogica denuncia – “illogica” perché Mosca sostiene che il suo impegno siriano riguarda la lotta al terrorismo e dunque dovrebbe essere contenta se gli americani dovessero riuscire ad ammazzare Baghdadi, anche se loro ascrivono alla categoria del terrore non solo l’Is, ma tutte le opposizioni, così da semplificarsi la vita quando spingono le narrazioni sulle missioni siriane – riguarda l’interesse per l’area in cui stanno avvenendo le operazioni.

Poco a nord della striscia baghdadista c’è infatti Deir Ezzor, città petrolifera dell’est siriano, attorno a cui ormai i curdi alleati occidentali hanno ripreso il controllo del territorio al Califfato e puntano a una presenza stanziale. Se è vero che la situazione di Idlib era risolvibile cedendo un po’ di autorità alla Turchia – che s’è salvata la faccia con le opposizioni e s’è difesa da un crisi migratoria, mentre la Russia ha ottenuto un investimento da mediatrice – sull’est siriano la situazione è molto più complicata.

I curdi rivendicano da sempre una propria dimensione statuale, e anche per questo si sono dimostrati efficaci nella riconquista al Califfo di quel territorio che loro chiamano Rojava. Ora sono scesi a sud però, e hanno in mano campi pozzi che potrebbero usare come merce di scambio, in un baratto per l’indipendentismo, in un negoziato pragmatico con Damasco, che sua volta ha bisogno di quei reservoir per il proprio sostentamento. Tra l’altro su quei giacimenti le aziende russe hanno già chiuso patti di sfruttamento con la controparte siriana, e per questo vedono ostile la presenza curda, che semplificano in americana così che qualche disattento in giro per il mondo possa pensare alla classica accusa della “guerra per il petrolio che fanno come al solito gli americani” (condire il tutto con un po’ di “sovranità”, che fa sempre al caso per la propaganda russa e dei suoi fan).

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