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La crisi europea passa da Berlino. E l’Italia da che parte sta?

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Quando Hitler venne eletto, peraltro democraticamente, al Cancellierato, la grande inflazione, generata peraltro dai trattati iniqui occidentali che chiusero la Prima Guerra Mondiale, era già cessata, almeno nei suoi aspetti più paradossali. Il “periodo d’oro” a bassa o media inflazione della Repubblica di Weimar, dal 1924 al 1928, durò poco; non perché si riaccese l’inflazione precedente, ma perché arrivò in Europa, come al solito, w. Peraltro, i Piani Dawes e Young, nati proprio per aiutare la Germania dopo il primo conflitto mondiale, piani che dettero origine alla Banca dei Regolamenti Internazionali, erano basati su prestiti obbligazionari tedeschi da vendere sui mercati internazionali, ipoteche sugli introiti fiscali, altre ipoteche sulle reti ferroviarie e gli immobili pubblici; e non sono affatto privi di suggerimenti per la crisi contemporanea. Ma allora, anche dopo il Secondo Conflitto Mondiale, c’erano classi dirigenti, in Usa e in Europa, che misero mano anche al ridisegno globale degli equilibri, finanziari e non, dalla Bri di Basilea fino all’Onu, nato sulle ceneri della Società delle Nazioni dopo la Conferenza di Yalta, oppure ancora il Gatt, General Agreement on Tariffs and Trade, il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, e molte altre, che nacquero sull’idea, appunto, sempre per usare la terminologia di Paolo Savona, di una nuova politeia, europea e internazionale. Oggi, nessuno la vuole, la politeia nuova, perché tutti sono alla ricerca dei rendimenti marginali derivanti dalla globalizzazione, che ha abbattuto i costi, modificato la finanza speculativa e non, ridisegnato i confini delle zone di influenza di tutto il globo. Bene, la ricreazione globalista, per parafrasare de Gaulle dopo il maggio 1968, è finita.

Oggi stiamo infatti andando verso la ridefinizione delle aree di influenza globali. Con una America del Nord che si restringe al suo continente latino e meridionale, una rivisitazione geopolitica della Dottrina Monroe del 1823. Una posizione geopolitica che, lo ricordava Carl Schmitt, era nata proprio contro l’Europa. La Cina si sta comunque prendendo tutto quello che potrà nelle sue periferie, creando una egemonia globale che sarà, per ora almeno, solo economica, finanziaria e monetaria. Ma, secondo la tradizione della filosofia della guerra cinese, la trasformazione dell’egemonia cinese da economica e militare sarà solo colpa nostra. Pechino vuole imitare, in questo caso, il modo in cui, proprio dal Piano Dawes in poi, la finanza nordamericana è entrata in Europa e, fin dal Trattato di San Lorenzo del 1795, in America Latina. La Federazione Russa è entrata appieno nel grande progetto cinese della Belt and Road Initiative, rafforzerà poi la rete militare dello Sco, Shangai Cooperation Organization, che confina con il suo Medio oriente e l’area georgiana e ucraina; e tenterà di sostituire gli Usa in Medio Oriente, utilizzando vecchie (la Siria e l’Iran) e nuove amicizie. L’India si occuperà soprattutto delle sue vie d’acqua, verso una alleanza possibile con l’Islam. Una vecchia idea, che all’epoca sembrava del tutto priva di sostanza, di Francis Fukuyama negli anni ’90. Ecco, vista la fase che Savona chiama di de-globalizzazione in atto, l’Europa è destinata a fallire perché, in primo luogo, non possiede una banca di emissione che si sia data, oltre l’obiettivo della stabilità dei prezzi e del controllo dell’inflazione, la condizione efficace di lender of last resort e di, come afferma esplicitamente lo statuto della Fed, sostegno alla piena occupazione. Sembra, peraltro, strano che si pensi che la stabilità dei prezzi sia solo un problema da banca di emissione, dato che i prezzi non dipendono solamente dalla quantità di moneta disponibile o dal solo tasso di inflazione.

Certo, il controllo dei prezzi evita il premio per il rischio di inflazione; e riduce poi l’effetto distorsivo dei sistemi previdenziali e tributari, ma immaginare una Bce che controlla tutti i prezzi solo con mezzi monetari sembra una piccola follia. E i costi di produzione? Influiscono o no sui prezzi? Certamente, ma come si possono “controllare” solo con mezzi monetari? Consigliando la solita moderazione salariale? Una teoria economica da casalinghe disperate, e mi scuso con le casalinghe. Un altro elemento del lavoro politico e scientifico di Paolo Savona, che ricorre anche nella “Nuova Politeia”, è quello che a me interessa particolarmente. Ovvero, l’azione svolta da Paolo per far convergere la teoria economica moderna con la dottrina sociale della Chiesa Cattolica. Ho scritto ripetutamente sul Codice di Camaldoli, che è ancora, per me, alla base dell’impegno sociale, politico ed economico dei cattolici. Savona, che viene da una tradizione “laica”, è stato fin dall’inizio interessato alla dottrina sociale della Chiesa e l’ha studiata con grande rispetto e il consueto acume.

L’idea, che corre all’interno di tutta la dottrina sociale dei Papi contemporanei, di una “società civile” che si sostituisca ai fallimenti sempre più comuni dello Stato e anche del Mercato, l’attenzione al principio di sussidiarietà, l’interesse per la crescita integrale dell’uomo come obiettivo della res oeconomica, il forte interesse, ancora, per il rapporto tra l’etica e le leggi di mercato, che senza l’etica non possono nemmeno sopravvivere, sono tutti temi che hanno sempre più appassionato Paolo Savona. E ciò spiega anche la sua finezza di scienziato dell’economia. E, certo, mi ricordo le sue osservazioni sulla inconsistenza storica dei fondamenti weberiani dell’etica protestante, che avrebbe dato origine al capitalismo secondo la noiosa vulgata appunto di Max Weber, mentre si dimentica l’apporto essenziale del Cattolicesimo, e soprattutto dei suoi ordini monastici, che hanno abolito l’usura tramite le casse rurali, invenzione precipua dei francescani; o della teoria sindacale di Toniolo, che giunge alla necessità di creare sindacati “di soli operai”. Il capitalismo, senza la democrazia e i valori cristiani, sarebbe stato distrutto, dalle masse, in un attimo.

C’è molta più modernità e equilibrio razionale nella teoria economica della Chiesa, il cui coronamento moderno è proprio il Codice di Camaldoli, che non in tanti manualetti contemporanei, dove sembra che le forze economiche agiscano secondo le equazioni dei gas perfetti. Immagino che Paolo Savona, che ha una profondità culturale e storica rarissima tra gli economisti del suo rango, studierà ancora e bene questi temi, che sono ben più concreti e di immediata utilizzazione di quanto si pensi. Immagino quanto sarebbe utile, per esempio, l’applicazione della sussidiarietà al sistema scolastico e anche a quello delle banche di deposito. Etica e Economia, un tema che Savona ha ampliato in un suo famoso convegno alla Nemetria di Foligno e alla Bocconi, e poi anche a Venezia, con un nutrito gruppo di Nobel per l’economia. Ed è qui che ritorna la sua polemica contro l’attuale Europa, una polemica, lo ripeto, da europeista ante litteram.

La “religione dell’europeismo”, quella impugnata da tanti cantori incolti dell’economia e della politica, impedisce, secondo Paolo, lo stesso funzionamento ottimale dell’Europa. La questione ricorre proprio nella recentissima Nuova Politeia: se tutti i paesi dell’Eurozona perdono integralmente la loro sovranità monetaria, i loro debiti pubblici non sono quindi più garantiti da un prestatore di ultima istanza, e per giunta tutte le monete dell’Ue sono legate tra loro da un sistema di cambi fissi, quello originario; ma allora c’è un solo Paese che ne beneficia, la Germania, ma potrebbe essere perfino anche un altro che combina ottimamente i fattori produttivi, monetari e debitori come finora hanno fatto i tedeschi. Se quindi l’Europa andrà verso una vera unificazione politica, in cui l’egemonia di uno sia ridotta a favore di un equilibrio tra le necessità di tutti i Paesi dell’Euro, bene, altrimenti, dice Savona, il sistema dell’Euro salterà. O per le già citate anomie interne, o per un intervento esogeno che catalizza la crisi.

Se infatti, e qui c’è il distinguo tra vero europeismo e mito retorico dell’Europa, l’area Euro avesse un solo bilancio, e un solo ministro competente, la Bce potrebbe diventare legittimamente un Llr, un prestatore di ultima istanza, e allora, peraltro, la moneta unica europea potrebbe veleggiare verso un ruolo pari a quello del dollaro e, in futuro, dello yuan, nei mercati monetari internazionali. E questo permetterebbe alla Bce perfino il gioco del “doppio deficit” che gli Usa svolgono da tempo immemorabile col loro dollaro, quel doppio deficit, delle partite correnti e del bilancio, che, funziona secondo come diceva un governatore della Fed anni fa ai suoi colleghi europei, “il dollaro è la nostra moneta e il vostro problema”. Il vecchio Piano A, adombrato in tutta la nuova Politeia, è quindi quello autenticamente europeista. Il Piano B, che è stato favoleggiato da qualche incompetente giornalista, è però quello che hanno fatto tutti, proprio tutti, e che rinnovano periodicamente, ovvero quello di una uscita dalla moneta unica europea che dovesse arrivare in condizioni di estrema necessità, alla quale dobbiamo essere preparati fin nei più piccoli particolari.

È quasi una ovvietà. L’ex-Urss, anche quando erano caduti ufficialmente i soviet, continuò a preparare i piani di attacco delle postazioni NATO e nazionali dei Paesi europei. Ironia della sorte, i piani di attacco verso l’Italia prevedevano la raccolta di truppe di tutto il Patto di Varsavia dirette in Ungheria, per poi arrivare verso la soglia di Gorizia, utilizzare probabilmente qualche varco nella Jugoslavia di Tito, che fra l’altro si era già separata nelle etnie-stati originarie, e arrivare infine nel nostro Nord-Est e poi dilagare nella Pianura Padana. Il sud sarebbe stato area da “operazioni speciali”. Ogni paese serio e ogni classe politica composta da adulti fanno un piano per il “peggiore scenario” e per lo scenario “ottimo”. Se, quindi, l’euro andasse in crisi e divenisse quindi oggetto di attacchi speculativi feroci, cosa farebbero i cantori di una area ottimale dell’Euro che ancora non esiste? E non dimentichiamo che la compressione finanziaria e strategica dell’Europa, oggi, conviene a molti: fa il gioco degli Usa, che si toglierebbero dai piedi un concorrente del quale, in privato, deridono la moneta “unica”, che leggono come una sciocca intromissione della “vecchia Europa” nel dominio globale del dollaro, ma converrebbe anche alla Federazione Russa, che non avrebbe ostacoli nella riconquista della sua vecchia area di pertinenza nell’Europa slava e in Medio Oriente, dove peraltro gli europei seguono supinamente gli Usa, con l’ulteriore aggravante di un ormai esplicito antisionismo.

Ma forse non converrebbe alla Cina, che ha bisogno di un Terzo da opporre, come argine atlantico, nei confronti di una America del Nord che, peraltro, sta volontariamente rimpicciolendo la Nato. Ecco, invece di curare l’”immagine”, molti dei nostri politicanti dovrebbero studiare meglio i libri di Paolo Savona. Peraltro, mi piace qui ricordare lo studio, davvero importante, che Savona ha dedicato alla finanza cinese subito dopo il lancio delle “Quattro Modernizzazioni” di Deng Xiaoping, uno studio che era impostato sulla proiezione futura della Cina verso il capitalismo Usa e, poi, quello europeo. Ecco, un testo che sarebbe bene che tutti studiassero, questa Nuova Politeia di Paolo Savona, ma che nessuno, forse, accetterà in toto. Non la vorranno i cantori strenui dell’ottimismo europeista, ignari seguaci del venditore di almanacchi di leopardiana memoria, non l’accetteranno nemmeno gli antieuropeisti sfegatati, i quali credono che il solo, miracoloso, atto di uscita dall’euro porterebbe chissà quali vantaggi; illusi che, oggi, la sola svalutazione competitiva sia la panacea di tutti i mali, non la vorranno infine leggere neanche i cantori dello status quo, quelli che credono che niente verrà poi al pettine.

La costruzione dell’euro e della Europa è vecchia culturalmente e si sostiene solamente grazie alla relativa potenza commerciale e produttiva dei singoli Paesi che la compongono. In politica estera, l’Ue è una appendice inutile degli Usa, come se non fossimo, peraltro, concorrenti globali dell’America del Nord. E ce ne accorgeremo presto, quando il Presidente Trump attaccherà con la stesa virulenza con cui ha aggredito la Cina il surplus commerciale tedesco. E noi che faremo? Ci accoderemo supinamente agli interessi della sola Germania, che peraltro danneggiano grandemente anche noi, oppure ci ricresceranno, rapidamente, le gonadi politiche? Berlino scaricherà certamente addosso ai Paesi deboli della Ue il costo della guerra commerciale e daziaria con gli Usa, questo è certo, ma oggi la crisi europea è fortemente accelerata da tre questioni: quella migratoria, causata dalla destabilizzazione del Maghreb a causa delle primavere arabe di marca Usa, a cui si sono supinamente, ancora, uniti Francia e Gran Bretagna, quella finanziaria, di cui abbiamo parlato, con l’Euro che non è né carne né pesce; e infine quella militare, con il Medio Oriente ormai già ridisegnato e l’Ue che pensa solo alle farfalle. Per non pensare anche alla nuova presenza della Cina, con la Belt and Road Initiative, che arriverà fino all’Italia e oltre; e alla Russia, che giocherà il suo nuovo ruolo di potenza egemone regionale tra l’Asia Centrale l’India e il Medio Oriente. Ecco, di questo si parla, senza dirlo esplicitamente, quando si parla di riforma della Ue e di un nuovo ruolo della sua moneta unica.

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