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L’impero di Erdogan sempre più in crisi nonostante i muscoli. Ora è il turno dell’inflazione

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Sarà anche un complotto internazionale, o almeno così continua ad affermare il presidente della Repubblica, Recep Tayyip Erdogan, ma l’economia della Mezzaluna continua a fare preoccupare investitori internazionali e imprenditori locali. L’ultima notizia, solo in ordine di tempo, è arrivata dai dati sull’inflazione, che hanno fatto iniziare settembre nel peggiore dei modi.

Il costo della vita ad agosto, su base annuale è aumentato al 17,9% rispetto al 15,9% del mese precedente. L’indice mensile segna un incremento del 2,3%. Questo per quanto riguarda i prezzi al consumo. Per quelli di produzione, il panorama è ancora più nefasto, con un balzo del 32% rispetto all’agosto 2017.

Si tratta dei primi effetti della svalutazione progressiva della valuta nazionale sul dollaro, che va avanti da mesi, ma che da agosto, con le nuove tensioni fra Turchia e Stati Uniti, ha toccato nuove vette che hanno causato non pochi problemi a risparmiatori e investitori. La Banca Centrale ha deciso di intervenire per evitare nuovi exploit in negativo della valuta nazionale, facendo capire che nella prossima riunione di settembre potrebbe prendere la decisione che molti aspettano da tempo e alzare i tassi di interesse.

Tutto dipende dalla solida variabile, ossia il Presidente della Repubblica, Recep Tayyip Erdogan, da sempre contrario ad azioni contenitive del flusso di denaro, perché secondo lui rallenterebbero in modo grave la crescita del Paese, che aumenta sì, ma a scapito della stabilità finanziaria e di quella dei prezzi. Il capo di Stato in queste settimane si è adoperato per trovare alleati, anche in Europa, per contrastare quella che sembra una vera e propria offensiva degli Usa, con il Presidente Trump che ha cambiato radicalmente registro rispetto al predecessore Barack Obama.

Si è assicurato l’appoggio di Emmanuel Macron e quello di Angela Merkel, ma questo non sembra aver fatto desistere la Casa Bianca dai suoi propositi. Sembra ormai chiaro che il numero uno di Washington sia deciso sì a punire la Turchia per la sua eccessiva esuberanza in politica estera.

La Turchia è il primo obiettivo, ma la sua destabilizzazione serve per mandare chiari messaggi all’asse di cui Ankara fa parte, in primis Mosca, e in seconda battuta Teheran e Doha. Non è un caso che proprio il Cremlino abbia parlato di ‘azioni illegittime’ da parte di Trump e che il Qatar abbia deciso di investire in Turchia 15 miliardi di dollari, per dare un messaggio a tutti gli investitori internazionale sulla solidità dei nuovi alleati della Mezzaluna.

La tensione a distanza fra i due Paesi sembra destinata a continuare. Durante il suo viaggio in Kyrgyzstan, Erdogan è tornato a parlare del progetto di scambiare merci in valuta locale, lasciando quindi fuori il dollaro e interrompere quello che per il presidente turco è un ‘monopolio’.

Il prossimo 12 ottobre potrebbe essere una data particolarmente nevralgica. La Turchia potrebbe dare un segnale e disporre la scarcerazione di Andrew Brunson, il pastore evangelico causa ufficiale della nuova frattura con gli Usa. Il suo rilascio potrebbe essere interpretato come un gesto di distensione. In caso contrario, è lecito aspettarsi nuove tensioni, anche alla luce della fornitura di missili s-400 che la Russia ha garantito alla Turchia, Paese membro della Nato.


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