Pierre Moscovici non si è lasciato sfuggire la ghiotta occasione di redarguire Luigi Di Maio, colpevole di aver immaginato di poter seguire la Francia lungo una strada immaginifica. Portare il deficit di bilancio, per il 2019, fino al 2,8 per cento del Pil.
Intercettato a New York, mentre si recava ad un convegno all’Harvard Club, in un colloquio con il corrispondente de La Stampa, è stato lapidario:”Il paragone con il 2,8% della Francia non regge”. E perché mai? La domanda viene spontanea. Dalla crisi del 2007, il deficit francese è stato sempre superiore al 3 per cento. E solo lo scorso anno è sceso al 2,6%. Soglia che Emmanuel Macron vorrebbe abbandonare con una mega operazione di sgravi fiscali, per oltre 28 miliardi di euro, che porterebbe l’asticella al 2,8%.
Ma lo scopo dell’intervista di Moscovici era un altro: prendere due piccioni con una fava. Strapazzare l’odiato populista in vista di quello che potrebbe essere il giudizio di Dio: le prossime elezioni europee. Accreditarsi presso l’opinione pubblica più moderata come un campione dell’europeismo. Che difende il castello dall’assalto dei barbari. Operazione riuscita solo a metà.
“La questione fondamentale – aveva precisato nel colloquio – che dovrebbe interessare all’Italia non è sforare i parametri relativi al rapporto tra deficit e Pil, ma potenziare la propria produttività”. Tesi, per la verità, non del tutto univoca, nel suo reale significato. Se Moscovici allude al fatto che il maggior deficit di bilancio non deve alimentare la spesa corrente – leggi salario o pensioni di cittadinanza – ha perfettamente ragione. Se invece crede che un deficit, comunque più contenuto, sia un toccasana per l’economia, a prescindere da qualsiasi ulteriore qualificazione, è una sonora sciocchezza.
Una buona politica di bilancio deve tendere a equilibrare domanda ed offerta complessiva. Il massimo della produzione del reddito, in una prospettiva di medio periodo, si ha quando la bilancia dei pagamenti è in equilibrio. In questo caso, infatti, tutto il potenziale produttivo è utilizzato. Per cui se la domanda interna dovesse essere ulteriormente sollecitata – un deficit di bilancio più elevato o una politica salariale più spinta – il vuoto dell’offerta sarebbe colmato da un eccesso di importazioni. Che porterebbe in rosso la bilancia dei pagamenti.
È il caso francese. A partire dal 2007 – l’anno della grande crisi bancaria – il saldo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, anche a causa dell’eccesso di deficit pubblico, è stato negativo. In media circa 1 punto di Pil. Segno evidente che la stretta fiscale doveva essere ben più severa di quella effettivamente praticata. Ma, evidentemente, i solerti censori di Bruxelles non sono poi stati così severi. E rischiano di non esserlo nemmeno per l’avvenire.
L’Italia si è comportata in modo diametralmente opposto. La stretta fiscale è stata ben più dura. In media il doppio di quella francese, con un effetto immediato sull’evoluzione del quadro macro-economico. Nel 2011, ancora dopo diversi anni, il deficit delle partite correnti della bilancia dei pagamenti italiana era pari al 3 per cento. L’anno successivo, a seguito della cura imposta da Mario Monti, quel deficit era quasi interamente riassorbito. Per trasformarsi in un surplus permanente destinato a durare, secondo le previsioni, fino al 2020. Per un importo superiore al 3 per cento del Pil. Si può, allora, seriamente sostenere che la produttività di sistema dell’Italia sia inferiore a quella francese?
C’è poi il problema del debito. Moscovici non ne parla nel suo colloquio. Ma il tema è presente, come convitato di pietra. I dati in apparenza danno ragione alla Francia. Ma solo in apparenza. Considerando lo stesso intervallo di tempo, il rapporto debito-Pil, nel 2007, in Francia, era pari al 64,4%. Nel 2017 è stato invece pari al 97%. L’incremento è stato quindi di 32,6 punti. Il balzo del debito italiano, nello stesso periodo, da 99,8% a 131,8%. Con uno stacco simile: 32 punti. Sembrerebbe un risultato di parità. Ma così non è. In percentuale (calcolo che incorpora meglio il fattore velocità) la crescita è ben superiore. In Francia è cresciuto di oltre il 50%. In Italia solo del 32.
Come si vede se Roma piange, Parigi non ride. Sebbene a favore della capitale francese il supporto della Bundesbank non sia mai venuto meno. Cosa che contribuisce a spiegare, seppure in parte, la differenza che si registra nel valore degli spread sui titoli di Stato. Piuttosto che beccarsi come galli in un pollaio, sarebbe pertanto il caso che francesi ed italiani tentassero di abbozzare una comune strategia. Prescindendo dai diversi colori della compagine governativa. La diplomazia serve a questo. Ed è una strada obbligata, se entrambi non vogliono continuare a lavorare – non è solo una citazione letteraria – a favore del Re di Prussia.