Nonostante la reiterata sicurezza di molti, ultimo in ordine di tempo il Wall Street Journal, un’intesa tra Cina e Vaticano non può essere mai definita dietro l’angolo. Anche scriverlo può diventare un problema: leggerlo infatti può spingere chi si oppone, magari nell’ombra, a compiere qualche provocazione, come un arresto. E visto che qualcosa potrebbe già essere accaduto, anche in tempi recenti, ad esempio circa un anno fa, quando è stato fatto forzatamente sparire il vescovo di Wenzhou, è meglio tenerne conto. Ma il fatto che anche i media vaticani abbiano parlato di recente del dialogo tra Vaticano e Cina, sottolineando il diffuso favore tra i vescovi riconosciuti e non riconosciuti da Pechino, indica che la prospettiva era ed è concreta. Ed è una prospettiva che non contempla intese politico-diplomatiche, ma religiose, cioè sui criteri di nomina dei vescovi cinesi. Qualcuno pregiudizialmente ostile a un fatto storico come sarebbe questo, importantissimo soprattutto per i cattolici che vivono in Cina, ha asserito che i vescovi li nomina il papa e strappi a questa regola sono inconcepibili. Teoria molto strana, visto che è ben noto che nei primi secoli i vescovi erano scelti dalle comunità di fedeli, poi nel IV secolo cominciò l’ingerenza imperiale di Costantinopoli, poi toccò all’Occidente, dove fu Carlo Magno a nominare numerosi vescovi, per assicurare ai cristiani guide ineccepibili, che dopo la sua morte divennero anche feudatari. E’ solo a partire dal XII secolo che i papi hanno cominciato a riservare a sé la nomina dei vescovi, senza impedire il trattato tra Francesco I e Leone XIII, che riservava al primo la nomina dei vescovi, e Giuseppe II, nella sua Austria, impose il placet regio sul finire del Settecento. Che in Cina si lavori a un’intesa che tuteli le prerogative del papa e le aspettative di Pechino non può sorprendere, visto che la storia è un po’ diversa. Questa strada essenziale per il mondo e per la cattolicità è stata certamente aperta con la lettera del 2007 di Benedetto XVI ai cinesi, quando si aprì la porta alla collaborazione con il governo. Di qui era naturale desumere che, come ha scritto padre Joseph You Guo Jiang su La Civiltà Cattolica, “poiché la Cina ha caratteristiche proprie che la distinguono dal resto del mondo, la Chiesa cattolica cinese deve imparare a rapportarsi alla cultura locale e all’autorità politica. In altri termini, pur mantenendo la propria identità, la Chiesa è chiamata a sviluppare «una Chiesa cattolica cinese dai tratti cinesi», in modo da inculturare i suoi insegnamenti e i valori del Vangelo. […] “Fin quando il partito comunista cinese rimarrà l’unico partito di governo, il marxismo continuerà a essere il riferimento ideologico della società. Perciò la Chiesa cattolica cinese è chiamata a ridefinire il suo ruolo e le sue relazioni con il Partito.” Si potrebbe esprimere questo concetto anche così: “la Chiesa non può rinunciare.” Non ci si definisce contro, ma si nuota nello stesso mare, mettendo le proprie idee al servizio del bene comune cinese.
Non poteva che essere un papa gesuita a rilanciare con maggiore determinazione il negoziato con la Cina, vista la storica attenzione della Compagnia per l’estremo oriente. E la figura del Segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, è garanzia di impegno e conoscenza, avendo lavorato per tanto tempo e con successo al miglioramento dei rapporti tra Santa Sede e Vietnam. L’idea di fondo è quella della pazienza, al centro del libro più importante del grande diplomatico Agostino Casaroli, punto di riferimento del diplomatico Parolin, che presentò cinquant’anni di lavoro per la Chiesa nel libro “il martirio della pazienza”. Oggi basta poco a capire la centralità di un nuovo possibile accordo religioso tra Santa Sede e Pechino. Non è soltanto il numero di abitanti di quello sconfinato paese a dover far riflettere. La Cina infatti oggi conta quasi 1 miliardo e 500 milioni di abitanti e cosa significhi una più diffusa presenza episcopale cattolica non è difficile capire. Ma è il corso dei tempi a dover far riflettere. Via della Seta e penetrazione globale della Cina non sono espressioni separabili da un rinnovato coinvolgimento della Cina con il mondo, mentre negli Stati Uniti, anche a mezzo di politiche orientati sui dazi, sembra prevalere una visione chiusa dello slogan “America first”. Questa Cina non può seguitare ad essere guardata da fuori, con sospetto magari giustificato, ma con gli occhi di padre Guo Jiang può essere capita, un’evangelizzazione del suo enorme bagaglio culturale è importante per tutti, non solo per la Chiesa cinese. Guardare al futuro con la nostalgia del mondo di ieri non è possibile, salvo illudersi di poterlo fermare. Meglio accompagnarlo, dal punto di vista della Chiesa evangelizzandolo. Se sarà possibile.