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Così la lotta (commerciale) continua. Fra Pechino e Washington

dazi, armistizio, cinese

A mezzanotte di giovedì s’è chiusa la finestra per esprimere pubblicamente commenti, consigli, raccomandazioni sul futuro possibile round di dazi che gli Stati Uniti di Donald Trump intendono alzare contro la Cina. Allo Winder Building di Washington, dove si trova l’ufficio del rappresentante al Commercio, Robert Lightthizer, sono arrivate 5914 opinioni individuali (e il numero non è enorme, se si considera che i 200 miliardi di dollari di prodotti su cui Trump vorrebbe modificare le tariffe commerciali rappresentano una fetta importante dell’interscambio Usa-Cina, e altrettanto saranno il simbolo di un potenziale scombussolamento del mercato globale che quella che a quel punto sarà realmente una guerra commerciale si porterà dietro).

In un’intervista televisiva sulla Bloomberg TV, il consigliere economico della Casa Bianca, Larry Kudlow (piuttosto abituato ai riflettori dalla sua precedente vita), ha detto che il presidente “esaminerà personalmente tutti i commenti” arrivati a Lighthizer, e anche sulla base di quelli deciderà che cosa fare “con quei 200 miliardi”. Il messaggio è potente: il commander in chief che legge ciò che i semplici cittadini americani gli chiedono e sulla base di quello decide la più importante postura, e policy, economico-commerciale della sua nazione, che caratterizzerà non solo il futuro statunitense ma quello del mondo.

“Prenderemo una decisione sul volume, sulla velocità, sui tempi” dice Kudlow, e quel plurale sembra non riguardare l’amministrazione, ma tutti gli americani, entrati nella stanza dei bottoni della Casa Bianca con i loro suggerimenti – anche se non è noto al momento se siano spinte o freni alla mossa trumpiana. Nel sistema con cui Trump inquadra sé stesso e i pezzi del governo da lui nominato come parte del popolo e tutto il resto – funzionari poco asserviti, altri politici (anche qualcuno tra quelli del suo partito) e oppositori in genere (dagli attori di Hollywood al professore di primo livello a cui non piace il trumpismo) – come establishment, quello che dice il suo consigliere ha un ottimo valore per i fan.

Allo stato dei fatti, sebbene gli operatori del mercato finanziario facciano notare che i valori cinesi stanno scendendo di rendimento in modo continuo proprio a causa della posizione anti-Pechino presa apertamente dall’attuale amministrazione americana (con un buon sostegno bipartisan al Congresso), non ci sono possibilità di soluzione della disputa commerciale all’orizzonte.

Il governo cinese non sta dando segnali: anzi, ciò che esce da Pechino è un clima di preparazione per la tempesta (i nuovi dazi, così grossi, potrebbero esserlo realmente) e alla risposta per rappresaglia. I cinesi non sembrano interessati a rispondere sulle riforme strutturali che l’America richiede.

Nell’ultimo numero del Qiushi, autorevole bimestrale in cui il Comitato centrale del Partito comunista affronta le questioni con maggiore profondità, l’editoriale difende il sistema economico cinese e sostiene che il vero obiettivo degli Stati Uniti nel lanciare la guerra commerciale è quello di contrastare l’ascesa della Cina – non è la prima volta che i media cinesi, sia quelli più di nicchia che i mainstream, parlano delle relazioni con Washington tenendo questa lettura.

Secondo l’esperto sinologo americano Bill Bishop, finora c’è stata un’interpretazione secondo cui la descrizione che esce da Pechino a proposito degli intenti americani dietro alla trade war è pura propaganda, finalizzati a creare leve in fase negoziale a favore della Cina. Però, dice Bishop, il fatto questo genere di analisi sia stata pubblicata dal Qiushi indebolisce questo modo di vedere le cose: c’è qualcosa di più profondo e convinto.

A proposito di leve: secondo un articolo pubblicato da Wall Street Journal, uno dei motivi per cui gli Stati Uniti hanno stretto sulle questioni commerciali ingaggiate con Messico e Canada, e hanno trovato un preliminare di accordo con l’Europa, sta nel cercare di mettere le tensioni in fase di rilassamento per poter costruire un fronte comune davanti alla Cina.

Usa, Ue e Giappone hanno già tenuto riunioni sulla strategia da adottare, e la ri-compattazione dello schema-Occidente almeno sulla situazione commerciale, può essere un elemento a favore di Washington nel confronto con Pechino, anche per evitare che il mercato cinese si apra verso gli altri ad excludendum degli americani.

La dimensione politica di questa distensione Western si specchia nel Congresso: i legislatori americani, che come detto hanno una visione abbastanza in linea con quella della Casa Bianca sulla Cina, hanno criticato però gli attacchi di Trump agli alleati. Ingaggiare uno scontro commerciale anche con i paesi partner mentre si sosteneva quello con Pechino, secondo i congressisti, non era un’ottima strategia: ma ora le cose sembrano cambiare.

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