Skip to main content

Perché difendo i tecnici dello Stato. L’intervento di Mario Giro

stato

Francesco Grillo su Formiche.net si domanda se il portavoce del presidente del Consiglio abbia nella sostanza ragione a criticare l’apparato burocratico dello Stato perché – scrive – “l’amministrazione centrale è una delle spiegazioni più potenti del motivo per il quale in Italia tutto cambia, affinché tutto rimanga così com’è”. Secondo Grillo i ministri succedutisi al governo negli ultimi anni hanno “fatto finta di non vedere” questo problema e, aggiunge, uno dei motivi del “blocco” risiede nel fatto che “è che i ministeri appaiono sguarniti delle conoscenze necessarie ad affrontare le trasformazioni di un secolo che sta cambiando la natura degli Stati”. Mi permetto di obiettare, sia dal punto di vista sostanziale che da un punto di vista esperienziale, avendo fatto parte per 5 anni dei governi precedenti.

Se è vero che il blocco del turn-over ha diminuito le capacità dell’alta amministrazione di rinnovarsi e le ristrettezze di bilancio le hanno tolto parecchi strumenti, è anche vero che essa rimane uno dei pochi punti di riferimento certi dello Stato sia in termini di qualità che di tenuta delle istituzioni. Chiunque giunga come ministro o sottosegretario dentro un ministero se ne accorge subito. La realtà è che, dalla seconda repubblica in poi, sono i politici gli incompetenti in materia di amministrazione… Sono loro i non laureati e i non conoscitori della macchina pubblica. Basta scorrere i CV dei vari alti gradi dello Stato e metterli a confronto con quelli dei governanti, e non mi permetto di parlare dell’attuale governo ma solo dei precedenti…

Non sono d’accordo nemmeno sulla fungibilità della dirigenza pubblica con quella privata: il mestiere di alto burocrate dello Stato è delicato e molto diverso, anche se le competenze possono assomigliarsi. Lo sa bene chi, provenendo dal privato, entra nella pubblica amministrazione: maneggia atti e soldi non suoi, si occupa quotidianamente di “beni pubblici” mentre anche in una public company i manager hanno una scarsa responsabilità di ciò che fanno (vedi bonus milionari che ricevono anche quando falliscono e vengono sostituiti…). Il manager privato infatti è pagato anche per “rischiare” sul mercato. Il manager pubblico questo non lo può e non lo deve fare.

Occorre conoscerla per capire: l’alta burocrazia pubblica – malgrado tutti i suoi difetti – è basata sul tempo e sulla fedeltà. In altri termini ha giurato (anche se nelle mani del politico di turno) di mantenere e proteggere lo Stato e le istituzioni. Questo è il suo compito precipuo: la capacità di durare e far durare lo Stato anche e soprattutto davanti alla volatilità degli eventi. Più questi ultimi sono “gridati” e “annunciati” dalla politica in maniera parossistica e velleitaria, più l’amministrazione “protegge” l’acquisito perché pensa che – in tali casi – mantenere sia meglio che innovare. Basta studiare la storia delle pubbliche amministrazioni per accorgersene: ad esempio la storia degli apparati nei ministeri di sovranità (tesoro, finanze, esteri, interno ecc.) durante il biennio 43-45, quando furono lacerati dallo sdoppiamento tra chi aderiva a Salò e chi restava a Roma (o stava già al sud). Volumi raccontano la storia di personaggi silenziosi e poco conosciuti che hanno “retto” le istituzioni anche quando esse morivano. Per un burocrate l’amministrazione e le istituzione non muoiono mai: se c’è crisi grave ci si riorganizza e si ripar, come scrive Alessadro Aresu sull’ultimo Limes. Tali “eroi” nascosti (delle amministrazioni centrali come di quelle decentrate) rappresentano il modello subliminale dei nostri migliori burocrati. Ciò si può studiare anche nella storia in altri paesi simili al nostro.

A meno che non si voglia la rivoluzione (ma quella vera…) e dal momento che non si governa senza apparato burocratico, va dunque trovato un accordo tra politica e amministrazione. Questo è il punto: come far passare l’innovazione politica attraverso le maglie fitte della prudenza e della certezza dell’esistente? Tutti i politici lo sanno (non è vero che fanno finta di niente) e le infinite lamentele di Berlusconi o Renzi (e molti altri…) sulla sordità dell’alto ceto amministrativo stanno lì a dimostrarlo. Ci si sono scontrati tutti, anche chi scrive (al piccolo livello della sua modesta posizione). La questione è che occorre che il politico sia serio, “convincente” e rispettabile: l’amministrazione pubblica ne ha visti tanti di annunci che hanno scardinato l’esistente senza far emergere null’altro che disordine. Di conseguenza per il politico si tratta di negoziare con l’alta amministrazione per convincerla che ciò a cui sta pensando sarà migliore di quello che esiste e, soprattutto, che non sarà temporaneo o transitorio. Molto spesso i nostri dirigenti pubblici evitano al politico di fare errori marchiani, in Italia e all’estero.

Tuttavia i politici italiani spesso non vogliono compiere tale sforzo ma preferiscono (litania ormai secolare) rivolgersi al pubblico a mezzo stampa, criticando la burocrazia. È un classico. Com’è nei cromosomi della nostra identità nazionale, si preferisce la scorciatoia di fare le vittime. Così si piagnucola o si sbotta sui giornali: “Noi vorremmo ma questi bloccano” oppure “gli faremo vedere…”. Dimenticano, tali prestigiatori della politica (e dei media), che la classe dirigenziale italiana è storicamente abituatissima a fungere da capro espiatorio e sa sopportare meglio di chiunque altro, anche a costo di farsi criticare senza reagire. Questo è il loro modo di servire: “esistere” per “far durare” le istituzioni a cui hanno dedicato la loro vita. Tale loro servizio va riconosciuto come parte integrante del nostro “essere Stato”. Certo anche loro sbagliano ma la verità odierna è che molti politici non hanno le competenze per sostenere un discorso con segretari generali, direttori generali ecc., limitandosi in genere ad improvvisare o creare “narrazioni”, giocando sempre di sponda coi media (che accettano pedissequamente tale ruolo senza indagare).

Durante la prima repubblica ciò era abbastanza diverso: quasi tutti i politici – anche grazie alla loro lunga permanenza al potere – erano essi stessi esperti di diritto amministrativo, ad esempio, una competenza che oggi non si trova più. Invece che adombrarsi per il “non si può fare” che spesso ricevono come risposta, i politici al governo dovrebbero avere l’umiltà di chiedere ai loro dirigenti: “Vorrei fare questo: secondo lei si può fare e come si può fare?”. Ne scaturirebbe un dibattito anche aspro ma molto più costruttivo. Si rammenti che la burocrazia ha anche memoria di tutto ciò che è stato tentato nel passato mentre la politica in Italia riparte sempre da zero, come se rinascesse sempre nell’attimo presente. La seconda (e la terza?) repubblica è senza memoria, senza passato e quindi si presenta labile sul futuro. Di conseguenza non è convincente e si perde tra grida, hate speech e sussurri complottisti. Chiediamocelo con sincerità: che credibilità può avere oggi una classe politica che è stata in grado di disintegrarsi più volte nell’arco di un ventennio, passando dalle stelle alle stalle in un batter d’occhio? È la storia di Forza Italia e del Pd: sembravano essere tutto e non ne rimane che poca cosa. La conseguenza è che non è stata una classe portatrice dell’interesse nazionale ma solo di un interesse governativo momentaneo. Molto più credibili i detentori del potere burocratico, certo conservatori per vocazione e forse anche antipatici, ma almeno molto più lucidi e seri, consci almeno di qual è l’interesse istituzionale. Per produrre risultati duraturi la dialettica tra passato (certo) e futuro (incerto) dovrebbe sempre passare attraverso tale filtro. Infatti fare politica non è soltanto “avere idee” ma studiare i processi che le possano realizzare, adattandole alla realtà concreta, sempre piena di caveat ed ostacoli. Il processo è l’abc dell’amministrazione.

Si sono visti in questi anni recenti tanti politici “sparare” idee sul giornale, gridarle in Parlamento e poi non seguire i processi applicativi, con risultati nefasti o ridicoli. Tali processi si chiamano “regolamenti di attuazione” o legislazione secondaria: il regno dell’amministrazione pubblica. O il politico accetta di starci, di seguire, di lavorare invece di apparire, o perderà tutto e si renderà inutile e alla fine ridicolo. Anche la più piccola decisione ha bisogno di essere seguita – passo passo – nel suo processo attuativo. Su tale strada l’alleanza con l’amministrazione è decisiva e, anzi, può essere reciprocamente utile. Le argomentazioni di Grillo mi paiono la solita scorciatoia italica fatta di recriminazioni e lamentale. Spero invece che i governanti attuali non ci ricaschino, instaurando con l’amministrazione un fattivo e fruttuoso dialogo istituzionale.


×

Iscriviti alla newsletter