Il lungo testo che l’attuale ministro degli Affari Europei del governo Conte ha dato alle stampe e ha inviato ad una ristretta cerchia di amici e di governanti europei, è un saggio da meditare con grande attenzione. Il titolo è molto impegnativo: una politeia per una Europa diversa, più forte e più equa. Segue, di poco, il volume dato alle stampe, sempre da Paolo Savona, “Come un incubo e come un sogno, memorialia e moralia di mezzo secolo di storia”, che è davvero un grosso lavoro, il quale si situa tra lo scientifico e il biografico, anche se è difficile, per Paolo Savona, data la sua straordinaria e lunga carriera, separare i due ambiti. Quali sono quindi i punti principali sui quali si disegna il lavoro più recente di Savona, questa Una politeia per una Europa diversa, più forte e più equa? Sono, in gran parte, proprio le conclusioni alle quali Paolo arriva nel suo più recente volume: a) l’inizio e la fine, in gran parte eterodiretta, del primato tecnologico italiano, che è all’origine della nostra perdita di produttività. Secondo gli ultimi dati Istat, i settori con la maggiore propensione all’innovazione sono nel manifatturiero, 12 comparti su 18 in totale, ma essa è fortemente segmentata, concentrata in alcuni settori e, soprattutto, poco diffusa nei settori “maturi”, che rimangono a medio-bassa produttività dei fattori. Ma, ce lo ha insegnato proprio la Germania, l’innovazione deve essere verticale, e interessare proprio quei settori produttivi “di massa” che, altrimenti, diverrebbero poco produttivi, con le facilmente intuibili conseguenze economiche e sociali del caso. Abbiamo, infatti, perso a suo tempo l’occasione di creare il personal computer, con l’acquisto, proprio al fine della sua distruzione, del settore specifico della Olivetti.
Un acquisto avvenuto da parte di una multinazionale, che poi perderà miseramente contro le nuove imprese della Silicon Valley e, oggi, viene addirittura spezzata in due società. Si trova qui un nesso, che ci sarà sempre nelle nostre storie politico-economiche recenti, tra divisione mondiale del lavoro e riduzione dello spazio innovativo delle nostre imprese, fossero esse o meno di proprietà pubblica. Un Paese sconfitto che ritirava su la testa con l’elettronica fine, le grandi infrastrutture innovative, l’agroalimentare di qualità e di massa, il settore energetico, il turismo, perfino il cinema. Tutto perduto, grazie ad operazioni aggressive dei nostri “amici” che ci volevano, già allora, un paese delle vacanze. E basta. E, in effetti, il mito del “pubblico” che è sempre meno efficiente del privato, dopo che, peraltro, il settore pubblico ha fatto tutte le infrastrutture (ne so qualcosa, da vecchio presidente di Autostrade S.p.A.) e ha ripreso tante grandi imprese che, lasciate sole con i privati, avrebbero messo in ginocchio il sistema bancario e gran parte del nostro export in valute forti, è appunto un mito creato da tanti cantori, spesso ignari, di ipotetiche glorie altrui. Le risatine sciocche sul “panettone di Stato” nascondevano il fallimento dei nostri imprenditori privati, che lo Stato doveva rilevare e poi riportare sui mercati e, spesso, in posizioni ben migliori delle precedenti. Per non parlare dell’Eni, oggetto del desiderio e avversaria di tante aziende petrolifere che volevano creare la dipendenza dello sviluppo industriale italiano verso le loro forniture e i loro prezzi. Come controllare un concorrente pericoloso. Vale poi, per le imprese private italiane, soprattutto in quegli anni, quello che Erwin Rommel, che pure testimoniò la sua stima verso i nostri bersaglieri con una celebre lapide, disse per le nostre Forze Armate: eccezionali per i soldati e i bassi gradi, pessime negli alti. E lo Stato copriva le mancanze del privato, ancora rachitico o mal gestito.
Da ciò non deriva che tutto, nel mondo delle imprese pubbliche, fosse brillante o commendevole. Ma questo non accadeva nemmeno nel mondo delle imprese private. Anche loro concedevano “dazioni” e vivevano dell’equilibrio generato da ciò che il politologo Giorgio Galli ha definito “il bipartitismo imperfetto”. Non c’è più quindi impresa, in Italia oggi, senza grande impresa pubblica, non c’è poi impresa possibile senza una decisiva autonomia bancaria, non c’è infine azienda possibile, oggi, in Italia, senza autonomia finanziaria e sovranità monetaria. Anche se questa debba essere trattata con il resto dell’Eurozona, si noti bene. L’Euro ha quindi solo mascherato una crisi produttiva dell’Italia, l’ha resa da acuta a cronica, l’ha poi posta nelle mani, tutt’altro che amichevoli, dei nostri concorrenti europei, che usavano la stessa moneta, l’ha infine trasformata in crisi geopolitica e strutturale, che non tarderà a divenire sociale. Anzi, lo è già. La globalizzazione post-guerra fredda, anzi la americanizzazione-mondializzazione successiva alla fine della guerra fredda nella sua forma militare, è arrivata, ha deformato il mercato-mondo, pur aprendolo, ed ha creato poi un far west geo-economico nel quale siamo entrati senza guida e senza una direzione politica e industriale pari a quella dei nostri concorrenti. Detto con durezza, siamo passati da una classe politica che ha unificato le “dazioni” e le ha passate dal pubblico al privato, o meglio alle privatizzazioni, mentre, per evitare un futuro da Argentina, abbiamo cambiato la nostra lira in Euro, per ricominciare a indebitarci senza molto criterio.
Almeno quel nuovo debito “fresco” avesse finanziato la grande trasformazione economica e produttiva che allora si profilava! Ma niente accade. I vestiti nuovi dell’Imperatore coprivano le stesse nudità. Dopo la fine dell’Urss, che gli Usa (e anche gli europei) hanno letto unicamente come la caduta di un Paese da trasformare in povero satellite, una sorta di America Latina ma al freddo, non ci sono stati quadri di riferimento, capaci di ricostruire un equilibrio mondiale. La corsa all’oro di Usa e di altri ha lasciato il vuoto geopolitico, che oggi è necessario, impellente, riempire. Magari, con una Europa funzionante. I mercati, da soli, non lo fanno, essi sono la napoleonica “intendenza” che può solo seguire. Ed ora assistiamo perfino al rovesciamento del fronte: una America del Nord che si rifugia nel protezionismo, mentre Mosca e Pechino si ridividono lo Hearthland asiatico espellendo gli Usa, forse l’India, certamente l’Europa e gran parte del mondo arabo-islamico. Con il quale andranno d’accordo, alla fine, il jihad della spada è una invenzione-operazione che è diretta contro l’Occidente, molto meno verso Russia e Cina, con l’India che ha solo il problema del Pakistan. Il “piccolo è bello” di Schumacher, mito degli anni ’70, non è quindi adatto a un grande Paese moderno: una nazione di Pmi e di “distretti industriali”, con gli alimentari e la meccanica che pure vanno ancor oggi benissimo, è solo un “Paese dei Campanelli”.
Occorrono imprese strutturali, una sovranità monetaria contrattata con gli altri dell’Eurozona, una trasformazione radicale dei Trattati fondativi dell’Europa e della moneta unica. E investimenti nella innovazione di tutto il sistema industriale e della Pubblica Amministrazione. E non ci sono i soldi, in gran parte perché sono stati mal spesi, ma in parte ancora maggiore perché l’architettura finanziaria dell’Eurozona non ce lo permette, qualunque sia il nostro paradigma economico e i nostri apparati industriali. Trattati, e qui Paolo Savona fa benissimo a sottolinearlo con estrema attenzione, che furono scritti in ritardo: c’era ancora il mito di Bretton Woods, proprio con l’Atto Unico europeo, che “dura” dal 1957, poi viene firmato nel 1986 ed infine entra in vigore nell’estate del 1987. Gli atti economici della UE nascono affetti da progeria, o sindrome di Werner, dopo i dieci anni, in questo caso, l’adolescente comincia a invecchiare precocissimamente. Si muore, con la sindrome di Werner, dopo i 50 anni; e quindi siamo in fase terminale. Una moneta che, forse, voleva fare all’inizio concorrenza al dollaro, in anni di “terzaforzismo” europeo nato dopo la conferenza di Helsinki del 1975, con il mito dell’equidistanza tra i due “poli”; ma il mito del Terzo europeo nasce peraltro in un contesto in cui gli Usa, nella più tradizionale logica “atlantica”, creano la Ue per chiudere la pur fallimentare economia sovietica nel quadro del Patto di Varsavia. Ma, come nota bene Savona nel suo lavoro sulla nuova politeia, una moneta come l’Euro, se non è lender of last resort, diviene progressivamente o una unità di conto o una vera e propria restrizione agli scambi. La Bce è prestatore di ultima istanza solo con le banche che ne fanno parte. Ma può anche concedere altra liquidità alle banche partecipanti, espandendo ad hoc la lista dei collaterali accettati dalla Bce stessa, può inoltre, la Banca Europea, fare da prestatore di medio termine.
Ma nessuna di queste operazioni viene prima della crisi monetaria o la previene; e permette quindi attività speculative o comunque tensioni sui mercati. E nessuna di queste azioni della Bce è largamente nota, con semplicità, ai mercati. Né è sicura, certa e prevedibile. Come non farla, quindi. Un pompiere, la Banca Centrale, che arriva quando l’incendio si è spento da solo. Detto con la mia consueta brutalità, l’alternativa per l’Italia era, allora, o accettare l’Euro, e nel suo primo round, o subire un assalto alla lira e una restrizione grave delle vendite dei nostri titoli del debito pubblico, sia sui mercati interni che su quelli esteri. La fine del nostro bilancio pubblico, in una parola. Ci fu chi, e Paolo Savona lo sa bene, programmò segretamente una “operazione Sansone” secondo la quale, se non fossimo entrati nell’Euro, la lira sarebbe stata così tanto svalutata da distruggere in un colpo solo tutto l’export futuro della Germania. Poi, probabilmente, la cosa fu nota nell’establishment germanico, soprattutto nella Confindustria tedesca e alcune telefonate, anche a Francesco Cossiga, risolsero il caso. Qui, il problema è che abbiamo avuto una restrizione monetaria, di fatto, solo con la moneta unica, che è deflattiva di per sé; poi la Germania ha radicalmente trasformato, con le leggi Hartz (lo Hartz-Konzept, più esattamente) tra il 2003 e il 2005, il suo mercato del lavoro, per adattare la sua produttività al nuovo sistema monetario, guadagnandoci perfino con una moneta come l’Euro, infine la ristrutturazione finanziaria e industriale è andata avanti. L’Euro però era sottovalutato rispetto al Marco, è bene ricordarlo. Con la moneta unica la Germania ci ha guadagnato, secondo alcuni istituti di ricerca affidabili, diverse decine di miliardi di euro, dal momento in cui esso è stato accettato come moneta unica. La sola differenza tra i costi di produzione, parametrati in marchi, creava un guadagno ex ante per tutti i prodotti che avessero come valore esterno il nuovo, allora, Euro.
Fine dei costi di assicurazione contro il rischio di cambio, allora, crescita degli scambi infra-europei, e crescita soprattutto dell’export tedesco, proprio perché l’Euro era considerata una moneta debole rispetto al vecchio Marco. La lira, invece, fu uccisa da un rapporto di cambio con la moneta europea tale da abbattere un toro. Nessuna riforma del lavoro ci fu in Italia, tipo quelle di Hartz, né investimenti in nuove tecnologie, per aumentare la produttività del lavoro, avrebbero quindi salvato il nostro Paese, con quel tasso di cambio iniziale in vigore. Mitterrand e la Thatcher vollero la moneta unica per prendere in pegno il marco tedesco e accettare, quindi la riunificazione tra Est e Ovest germanici. Altrimenti, niente Riunificazione. Mitterrand, addirittura, invitò a Parigi il presidente della Germania Est poco prima della ormai troppo famosa “caduta del Muro”. La Thatcher era ferocemente contraria, anche contro le note inviateLe dall’ambasciatore del regno unito a Bonn e il suo ministero degli Esteri al completo. Il calcolo di Gorbaciov, quello di far scoppiare le contraddizioni della Ue con la Germania riunificata, si rivelò esatto. D’altra parte, era l’uomo che il Primo Direttorato Centrale del Kgb aveva scelto come Segretario Generale del Partito. Ma la Gran Bretagna, però, rimase scientificamente e fieramente fuori dall’euro, mentre la Francia del socialista Mitterrand si preparò alla moneta unica con ben altre munizioni rispetto alle nostre. Né si dica, anche oggi, che la Germania “ha i conti in ordine”: dal 2003 al 2005 ha ampiamente sforato la regola del deficit debito/Pil del 3% poi, dal 2008 al 2018, ha già speso 93 miliardi di euro per salvare le sue banche, sia nazionali che, in particolare, dei suoi Länder, mezzo di finanziamento primario delle classi politiche regionali.
Il tutto poi accade con un rapporto debito/Pil che, sempre in Germania, ha raggiunto l’83%, ben oltre la regola di Maastricht del 60% massimo. Si deve poi ricordare, ma qui lo dico per gli specialisti, che almeno il 40% del debito pubblico tedesco è allocato presso fondi speciali, il cui deficit non figura nei bilanci di Stato. Qui, in questo caso, la Germania ha operato con grande destrezza e lucidità: mentre la crisi faceva diminuire le esportazioni, primarie per Berlino, nell’Eurozona, con un probabile -1,5% del PIL, c’era però la corsa, molto manipolata dai mass-media, ai titoli di Stato tedeschi; il che ha fatto abbassare gli interessi e ha apportato, alle casse pubbliche germaniche, un risparmio di almeno un punto di Pil. Quasi una partita di giro. Tout se tient, quindi. Ma non si deve nemmeno dimenticare che la crisi del 2008, generatasi negli Usa e poi scaricatasi in Europa, ha deprezzato il valore dell’Euro e ha, quindi, fatto ulteriormente aumentare le esportazioni denominate in valuta unica dell’Europa, per essere più esatti, di parte dell’Europa stessa. Una complicazione finanziaria e industriale grandissima, questa, ma d’altra parte, lo diceva Goethe, “i tedeschi possiedono il dono di rendere ogni scienza inaccessibile”. Inoltre, le imprese tedesche si possono indebitare a tassi inferiori rispetto ai loro concorrenti dell’Eurozona, ma se, allora, continua questo trasferimento netto dal Sud al Nord dell’area monetaria europea, la Germania dovrebbe poter trovare, anche da sola, anche un punto di indifferenza rispetto all’impoverimento della sua “periferia” che compra beni Made in Deutschland e il tasso ottimale di crescita dello Zentrum industriale e finanziario tedesco. C’è poi l’idea, che gli storici ritengono oggi sbagliata, che la ascesa al potere di Hitler sia dovuta all’iperinflazione weimariana. Anche questo è un mito che ha molto posto nella mente dei Decisori europei e, soprattutto, proprio di quelli tedeschi.