È facile prevedere che nella sua lunga e prestigiosa carriera accademica, Giovanni Tria non sia mai stato apostrofato così duramente. Nemmeno quando era un giovane assistente universitario alle prese con il potere assoluto dei baroni universitari. Perché anche allora regnava un certo fair play. Parole zuccherine, anche quando si trattava di mettere in riga i propri collaboratori. Alla veneranda età di quasi 70 anni, è stato invece costretto ad ingoiare il diktat del vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio, con un preannuncio di richiesta di dimissioni. Che significa, infatti, “nessuno ha chiesto le dimissioni del ministro Tria, ma pretendo che il ministro dell’economia di un governo del cambiamento trovi i soldi per gli Italiani che momentaneamente sono in grande difficoltà.” Dichiarazioni che sono state in parte smentite dallo stesso Di Maio o meglio leggermente corrette dalle successive dichiarazioni cinesi. Senza, per altro, modificarne la sostanza.
Operazione, comunque, non semplice; perché Di Maio ha poi rincarato la dose: “Gli Italiani in difficoltà non possono più aspettare, lo Stato non li può lasciare soli e un ministro serio li deve trovare”. Ergo: se i soldi non usciranno dal cappello del prestigiatore, questo può avere solo un significato: la scarsa serietà del responsabile di Via XX Settembre. Ma non è questa la sola forzatura. Altrettanto grave è l’uso del verbo “pretendere”. Che in italiano significa: “Volere con decisione qualcosa di cui si ritiene di avere diritto”. Fosse così facile, non vi sarebbe partita. Ed il problema storico dell’economia, segnato dalla scarsità di risorse a fronte di bisogni tendenzialmente illimitati, risolto una volta per tutte. Se a questo si aggiunge l’ipotesi che “gli Italiani” sono solo “momentaneamente … in grande difficoltà”, siamo alla ciliegina su una torta avvelenata. Dato che quel “momentaneamente” dura da almeno 10 anni. Visto che la caduta del Pil, nel periodo 2007 – 2016, è stata del 6,8 per cento. Con punte come in Liguria, funestata dal crollo di un ponte che non sarà facile ricostruire, del 12,5 per cento. Vedere, per favore, i dati della Banca d’Italia.
Uno scivolone, quindi. E poco importa se il vice presidente del Consiglio se ne renderà conto. Negherà del resto anche il proprio crescente imbarazzo derivante da un confronto, con l’altro vice presidente, che non volge a suo favore. Preoccupano, in particolari, i sondaggi che dimostrano come la Lega sia ormai il primo partito. Passando, in pochi mesi, da una posizione ancillare, all’essere il principale azionista di questa maggioranza. Ed allora, nel tentativo di recuperare, Luigi Di Maio è costretto a puntare i piedi e reclamare misure – come quelle sulle pensioni e sul reddito di cittadinanza – che sono il core business della proposta politica del Movimento e l’arma principale per rinsaldare i legami con il proprio elettorato, in vista della prossima campagna di primavera. Quando le elezioni potrebbero segnare definitivamente l’eventuale sorpasso.
Il contesto, come si può vedere, è tutto politico. E poco importa che si tratti della variante di un tentativo più antico. Come fu quello relativo alle scarpe spaiate, distribuite da Achille Lauro in occasione delle elezioni al Comune di Napoli, nel lontano 1952. Rinverdito dagli 80 euro elargiti da Matteo Renzi, in occasione delle passate elezioni europee che lo portarono sul tetto del 40,81 per cento dei voti. Tentativo, per la verità poi dimostratosi effimero. Intanto un percorso politico era stato garantito. Di Maio la lezione l’ha imparata. Ed ha deciso di accelerare, anche a costo di cambiare le carte in tavole. E trasformare progressivamente le proposte avanzate inizialmente.
Ripercorrere le tappe che hanno portato alla proposta del salario di cittadinanza è quindi istruttivo. Al fine di evidenziarne i profondi cambiamenti, dovuti al peso dell’emergenza politica. Nella passata legislatura il Movimento aveva presentato una specifica proposta di legge che, fin dall’origine, legava quel beneficio al tema più generale dell’inclusione sociale. Che come insegnano tutte le teorie, una “politica attiva del lavoro” richiede interventi sia dal lato della domanda che da quello dell’offerta. Primo obiettivo: accrescere il ritmo di sviluppo complessivo, per aumentare la domanda di lavoro. Ma altrettanto importante è spingere gli esclusi a proporsi, in modo dinamico. A cogliere le possibili occasioni che si sarebbero presentate, non solo evitando rassegnazioni ed indolenze. Ma contribuendo, attivamente, alla propria formazione, per arricchire il contenuto della propria offerta lavorativa. Bastone e carota.
Nel frattempo lo Stato doveva intervenire per modernizzare le strutture dei centri per l’impiego, al fine di favorire l’incontro tra domanda ed offerta. E regolare i flussi. Questo quindi lo schema. Recepito nel programma elettorale dei 5 Stelle (i famosi 20 punti), in cui non si parlava più di reddito di cittadinanza da istituire immediatamente, ma della semplice riorganizzazione di quei centri (2 miliardi) per l’avvio dell’intero programma. Tesi sostanzialmente confermata, nel contratto per il governo del cambiamento. Qui ricompare l’indicazione del reddito di cittadinanza e la sua quantificazione (780 euro al mese), ma la logica rimane immutata. Non si tratterà di un’elargizione del principe, ma del corrispettivo ad un impegno preso, con possibilità di revoca. Il beneficiario – è scritto testualmente – “dovrà aderire alle offerte di lavoro provenienti dai centri dell’impiego (massimo tre proposte nell’arco temporale di due anni), con decadenza dal beneficio in caso di rifiuto allo svolgimento dell’attività lavorativa richiesta.”
È facile prevedere come il ministro Tria, sulla base di questi presupposti, abbia elaborato la sua proposta gradualista. Prima la costruzione di questa complessa procedura, che richiederà almeno due anni di lavoro, quindi la messa a regime del sistema. Coerenza che non è piaciuta a Luigi Di Maio che, invece, all’improvviso, vuole tutto e subito, anche se lo schema non può funzionare. Ma così crolla l’intera impalcatura ed il reddito di cittadinanza diventa quello che forse è sempre stato. Almeno nella testa dei suoi ideatori: soldi da elargire in modo massiccio per conservare il sostegno del proprio elettorato. E per chi non ci sta non restano che le forche caudine.