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Il mar cinese è nostro. Così Pechino avvisa Londra

In uno dei tanti incontri a latere dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite di New York – quelli in cui avvengono le riunioni operative più importanti – il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, ha parlato con il segretario di Stato inglese, Jeremy Hunt. Wang nell’incontro ha messo Londra davanti a uno dei punti che Pechino considera chiave nel rapporto col Regno Unito: postura “ferma” riguardo al Mar Cinese. Gli inglesi hanno promesso di non prendere posizione riguardo le dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale, ha ricordato Wang, seguendo una linea che rispetti l’integrità e la sovranità territoriale della Cina in quel contesto geografico, ha aggiunto.

Nella realtà dei fatti, la “sovranità territoriale cinese” non è definitiva, ma rappresenta una rivendicazione con cui Pechino vuol mettere le mani su acque che segnano capisaldi in una delle rotte commerciali più importanti del mondo (e contengono giacimenti naturali). Per la Cina si tratta anche di una manovra politica, un’imposizione di forza su un tratto di mare rivendicato da altri attori, tutti alleati americani (e inglesi e occidentali in genere); per una potenza che punta a essere globale, non è possibile fare passi indietro su certi dossier casalinghi, ed è anche per questo che Pechino pressa. Alcuni isolotti sono stati militarizzati, creando un’impronta fisica difficilmente cancellabile, e i cinesi non perdono occasione per far valere il proprio peso diplomatico sulla situazione.

L’affermazione di Wang ovviamente non è generica, ma c’è un evento che la contestualizza e prima una scenografia che va ricostruito. Cina e Regno Unito hanno un rapporto profondo: Pechino usa Londra e la sua potenza finanziaria all’interno dell’Europa per l’internazionalizzazione della moneta, ma questa relazione s’è rallentata con la Brexit, anche se ad agosto cinesi e inglesi hanno discusso di accordi commerciali privilegiati nell’ottica della “età dell’oro” nelle relazioni, come l’ha definita un comunicato istituzionale congiunto.

Ma di mezzo c’è l’Ue, che gioca la posizione contro la Brexit anche attraverso carte secondaria, creando accordi con la Cina che possono entrare in contrasto con quelli inglesi. Anche per questo, gli inglesi hanno iniziato a guardare nel Pacifico verso un altro attore, che si trova in una posizione di concorrenza con la Cina: il Giappone.

Non a caso, la scorsa settimana Hunt era a Tokyo, dove ha incontrato il ministro degli Esteri, Taro Kono, e il premier Shinzo Abe: “Regno Unito e Giappone sono partner strategici globali che condividono valori fondamentali”, è il succo della dichiarazione di rito che forse nasconde un allineamento ancora più profondo. Rafforzare la cooperazioni bilaterale sul fronte della stabilità nella regione Asia-Pacific – come detto da Hunt usando la stessa semantica contenuta nel documento strategico rilasciato dalla Difesa giapponese – significa per Londra e Tokyo allinearsi su una direzione già decisa a dicembre, quando in una ministeriale a quattro Esteri-Difesa, giapponesi e inglesi si impegnarono a perseguire l’obiettivo di una “regione indo-pacifica libera e aperta”, in linea con la visione dell’ordine macro-regionale di Stati Uniti e Giappone. Una visione che non è proprio il distillato di ciò che vuole la Cina.

A fine agosto, la “HMS Albion”, unità anfibia dei Royal Marines inglesi, ha solcato le linee di costa delle Paracel, tra gli isolotti rivendicati da Pechino sul Mar Cinese Meridionale, mentre era in rotta verso il porto di Ho Chi Min City. La Albion faceva scalo in Vietnam – paese alleato americano, che nutre rivendicazioni simili alla Cina su quel tratto di mare – prima di fermarsi in Giappone, per un dispiegamento temporaneo (previste esercitazioni tra le due marine, perché i temi di Difesa e Sicurezza sono al centro della cooperazione nippo-britannica).

Sebbene la nave non fosse nemmeno entrata (per lo meno ufficialmente) all’interno delle 12 miglia nautiche che la Cina considera come proprio territorio attorno alle isole, il governo di Pechino ha espresso indignazione attraverso l’ambasciatore nel Regno Unito, Liu Xiaoming: “I paesi della regione hanno fiducia, capacità e saggezza per affrontare adeguatamente la questione del Mar Cinese Meridionale e ottenere stabilità, sviluppo e prosperità duraturi. Tuttavia alcuni grandi paesi al di fuori della regione non sembrano apprezzare la pace e la tranquillità dell’area e continuano a creare problemi”, ha detto Xiaoming.

Il diplomatico attaccava quelli che gli inglesi definiscono Fonop, acronimo inglese usato per primi dagli americani per indicare le operazioni di libera navigazione attraverso le rotte del Mar Cinese (come altrove): una provocazione quel passaggio, come quello di altre navi militari americane, dice Pechino, perché avvenuto senza autorizzazione cinese.

A luglio, il Giappone ha annunciato una missione delicata per il “Kaga” – la più grande nave da guerra giapponese, un cacciatorpediniere portaelicotteri in grado di trasportare anche gli F-35 – accompagnato da altre due navi della Forza di Autodifesa Marittima del Giappone, i cacciatorpediniere “Inazuma” e “Suzutsuki”. In un viaggio di due mesi in cui avrebbero toccato diversi porti, anche in India e Sri Lanka, sarebbero passati pure all’interno degli isolotti contesi del Mar Cinese (Giappone e Cina hanno anche dispute specifiche sulla parte orientale del bacino, dove a inizio luglio c’è stata un’attività simile ma targata Cina). Finora Tokyo s’è sempre tenuto in disparte nelle attività di Fonop americane e inglesi, ma l’ampliamento del dossier guarda a un’areale enorme che arriva fino all’Oceano Indiano (e non a caso il Pentagono ha cambiato il nome storico del Comando del Pacifico in “Indo-Pacific Command”) e ora è complicato tirarsi indietro dall’allineamento anglo-americano.

(Foto: Twitter, @HMS_Albion, la nave inglese accolta dall’orchestra della marina giapponese)

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