Lo Stato avanza o arretra, dipende semplicemente dalla fase storica. Negli anni 90 l’economia italiana improvvisamente si aprì, dando vita alle prime vere grandi privatizzazioni industriali. Dall’allora Telecom, all’Alitalia, lo Stato uscì progressivamente da diverse industrie. Oggi, con il governo gialloverde, sembra essersi avviato un meccanismo inversamente proporzionale: più aumenta la concorrenza più la mano pubblica si fa pesante. Da Mps a, di nuovo, l’Alitalia. Ma alla fine la domanda, o meglio le domande, di fondo sono: è meglio avere come padrone lo Stato o il libero mercato? E se lo Stato è padrone allora automaticamente ci si guadagna in Pil e ricchezza?
IL CONVEGNO ALLA SNA
Una discussione affrontata questa mattina nel corso di un convegno organizzato alla Scuola nazionale dell’Amministrazione dal gruppo dei 20 dell’Università di Tor Vergata e denominato Il mercato, lo Stato azionista e le politiche industriali. Al dibattito hanno partecipato Luigi Paganetto, presidente della Fondazione economia Tor Vergata e coordinatore dei lavori, Stefano Battini, presidente della Sna, Massimo Mucchetti, giornalista ed ex senatore dem, Andrea Montanino, direttore del Centro studi Confindustria, Patrizio Bianchi, dell’Università di Ferrara, Davide Tabarelli di Nomisma Energia, Carlo Scarpa, dell’Università di Brescia e Pasquale Lucio Scandizzo (Tor Vergata) mentre in platea, tra gli altri, c’era Franco Bassanini, oggi presidente di Open Fiber. “Il cambiamento che si sta producendo è così ampio da non poter fare a meno dell’intervento dello Stato attraverso la politica industriale”, ha premesso Paganetto.
L’ESEMPIO DELL’IRI
Formiche.net ha raccolto gli spunti più interessanti del convegno, a cominciare dalle considerazioni di Mucchetti, ex presidente delle commissione Industria di Palazzo Madama. “Una volta avevamo l’Iri, che era un’azienda sana e florida, in grado di distribuire robusti dividendi allo Stato. E i manager che vi lavoravano sono stati di gran lunga migliori per esempio di chi ha guidato Telecom negli ultimi 20 anni. Di più, nell’Iri c’era una natura profondamente meritocratica delle persone. Questo per dire, a titolo di premessa, che non esiste una patria potestà della capacità e dell’efficienza tra pubblico e privato”. Di qui una prima conclusione. “Oggi la stabilità azionaria in Italia, parlo delle principali industrie partecipate dallo Stato, deve essenzialmente essere basata su due pilastri: la meritocrazia e la chiarezza dei ruoli tra i dirigenti”.
POSSEDERE SENZA CRESCERE
Mucchetti non si è fermato qui, ampliando il discorso alla necessità di una grande riforma del rapporto tra Stato-azionista e le sue partecipate. Il punto, ha spiegato l’ex senatore, è che oggi molte partecipate statali mancano di vera politica industriale e sono ridotti al rango di meri distributori di utili. In altre parole, lo Stato possiede, incassa gli utili, ma non cresce, non genera ricchezza perché non fa crescere le sue aziende. “Se davvero vogliamo parlare di Stato-azionista allora l’azionista deve fare l’azionista, come fa per esempio Exor (la holding cassaforte degli Agnelli, ndr). Ovvero avere visione, investire, dotarsi di risorse umane adeguate per l’Industria 4.0 e non ridurre le sue società a semplici cassetti con in quali assicurarsi dividendi. Faccio l’esempio dell’Enel. Se certe società sono dei cassetti e poco altro, è perché hanno ricevuto tale mandato. Per questo una vera riforma sarebbe quella di cambiare la natura del rapporto tra l’azionista pubblico e le sue società”.
MEGLIO PROMUOVERE O NAZIONALIZZARE?
Una lettura del ruolo dello Stato nell’economia è stata fornita anche da Montanino, per anni tra le prime linee del Fondo monetario. L’idea è semplice. Non serve nazionalizzare, molto meglio promuovere iniziative con capitali privati. “Quello che oggi è mancato in Italia è una raffigurazione dello Stato promotore, inteso come Stato che promuove l’economia. Finora è mancata una spinta dello Stato nel favorire iniziative private. Fatta questa premessa, sento oggi un gran parlare di nazionalizzazioni, soprattutto da parte del ministro Luigi Di Maio. A dire la verità mi fa un po’ strano sentire parlare di ritorno dello Stato azionista anche se abbiamo avuto esempi di nazionalizzazioni in Europa negli ultimi anni, basti guardare alle banche”.
STATO PADRONE E STATO PROMOTORE
Entrando nel merito della questione, Montanino non teme in linea di massima un’ondata di nazionalizzazioni, a patto che abbiano un senso industriale e una chiara mission. Nel dubbio, però, meglio trovare altre strade. “C’è probabilmente un’alternativa a una nazionalizzazione pura delle industrie, che è quella dello Stato promotore, in grado cioè di veicolare in Italia capitali privati dall’estero per esempio. Credo che lo Stato promotore sia più utile alla crescita rispetto allo Stato nazionalizzatore. In altre parole meglio sostenere che sostituire”.
SBAGLIATO NAZIONALIZZARE PER CRISI
Patrizio Bianchi ha voluto fare un inciso, ricordando una tendenza tutta italiana. La nazionalizzazione come rimedio alla crisi. “Spesso si è intervenuti in alcuni settori perché c’era una situazione compromessa e allora lo Stato ci ha messo le mani. Un’operazione che andrebbe fatta non per sopperire a un problema ma per sviluppare una crescita del settore, non per fronteggiare una situazione di crisi”.
POLITICA INDUSTRIALE CERCASI
Al dibattito ha preso parte anche Stefano Firpo, direttore generale per la politica industriale, la competitività e le Pmi presso il ministero dello Sviluppo. Il quale ha parzialmente ridimensionato il dibattito sul ritorno o meno dello Stato padrone a suon di nazionalizzazioni. “Oggi il tema non è Stato proprietario o non proprietario, ma regolatore o no. Ci siamo resi conto che oggi non si riesce nemmeno a far valere la sua autorità? Questo è il vero fallimento, non possedere o meno qualche partecipata. Qualcuno davvero crede che nelle partecipate ci sia una vera politica industriale? Una strategia. Io con queste aziende spesso non riesco a individuare una vera politica industriale, ho enormi difficoltà a creare relazioni con queste aziende”.
LE CONCLUSIONI DI SCANDIZZO
Le conclusioni dei lavori sono state affidate a Pasquale Lucio Scandizzo, economista e consigliere del ministro Giovanni Tria. “C’è stato nel passato un rifiuto di parte degli economisti nel prendere una posizione netta nei confronti delle nazionalizzazioni o delle privatizzazioni. Però laddove vediamo il fallimento del libero mercato o dello Stato, allora bisogna porsi delle domande. Quello su cui ci dobbiamo concentrare in questo momento è la qualità ma anche la quantità degli investimenti, a prescindere da chi li effettua. Bisogna capire che tipo di investimenti si vanno a fare, sia che li faccia lo Stato, sia che li facciano i privati. L’importante è che abbiano un impatto sulla crescita e non siano volti a modificare, per esempio, il capitale”.