Somme e sottrazioni. Che non tornano. E allora, come sempre succede quando non si trova la via d’uscita, si sconfina (pericolosamente) sul terreno della politica. Quanto successo ieri lo dimostra. Una manovra da scrivere, dei vincoli da rispettare, un mercato che ci presta 400 miliardi all’anno (al netto della Bce) da tenersi stretto e una domanda che non incontra l’offerta.
La domanda è quella di Luigi Di Maio, l’offerta quella del ministro dell’Economia Giovanni Tria. L’uomo chiamato dal governo a garantire la tenuta dei nostri conti dinnanzi all’Europa. Qualcosa però ieri non ha funzionato. Di Maio chiede 8-10 miliardi per avviare quel reddito di cittadinanza che è molto più di un’ossessione per il Movimento. Tria ne offre 1-2 al massimo, il resto deve essere equamente ripartito tra le esigenze della Lega, l’Iva da congelare e una spruzzata di investimenti pubblici (Tria li vorrebbe al 3% del Pil ma sarà difficile farlo capire a Di Maio, che già sul Tap e sulla Tav ha delle remore).
Il resto sono 50 anni di patti europei sottoscritti dall’Italia e senza una pistola alla tempia. Che raccontano più o meno questa verità. Per soddisfare le richieste di Di Maio (e quelle degli italiani, ha detto il vicepremier) servirebbe allentare il deficit/pil almeno al 2,6-2,7%. Quel famoso “sfiorare” il 3% tanto caro anche alla Lega. I soldi si troverebbero subito, una dozzina di miliardi servita su un piatto d’argento e solo per il Movimento 5 Stelle. Poi però ci si potrebbe rimangiare la parola molto presto.
Primo, l’Italia non cresce (1,2% nel 2019 secondo Moody’s, ai limiti dell’anemia) dunque nessuna compensazione da parte del denominatore: avanza solo il deficit, non il prodotto interno lordo. Secondo, scatterebbe più o meno immediatamente la rappresaglia degli investitori, che non gradirebbero la disinvolura di un Paese che non riesce a tenere a bada i suoi conti permettendosi però il lusso di non crescere. Come ha spiegato ieri a questa testata l’economista Leonardo Becchetti, lo spread finirebbe per rimangiarsi tutto il guadagno (quest’anno già si pagheranno un miliardo di interessi in più sui titoli pubblici piazzati per finanziarsi il debito). Costerebbe cioè di più collocare il nostro debito.
Dunque, e qui si arriva a Tria, meglio la coperta corta ovvero un deficit all’1,6%. Mercati tranquilli, Europa pure, e primi cantieri avviati. Certo non si potrebbe fare quel tutto e subito che chiedono gli azionisti del governo gialloverde, ma un segnale agli elettori si potrebbe dare. E poi, puntando più sugli investimenti, come dice Tria, spostando cioè il baricentro della manovra più sulla crescita, il prossimo anno si potrebbe decidere una riduzione del defcit più graduale, fornendo maggiori spazi di manovra.
Una cosa è certa. I mercati credono in Tria, sono convinti che alla fine riuscirà a riportare il tutto nell’alveo del buon senso. Le acque agitate all’interno del governo non mettono sotto pressione il mercato azionario e obbligazionario italiano questa mattina, visto che lo spread viaggia sui 211 punti base.