Il presidente Donald Trump ha deciso di declassificare alcuni documenti che riguardano il cosiddetto Russiagate, l’inchiesta che il dipartimento di Giustizia ha affidato allo special counsel Robert Mueller, per far luce sull’interferenza russa durante le elezioni presidenziali di due anni fa, su eventuali collusioni tra Russia e team Trump e su potenziali ostacoli al procedere dell’indagine messi dalla presidenza.
Lunedì pomeriggio (ora di Washington D.C.), la segretaria stampa della Casa Bianca, Sarah Sanders, ha rilasciato una dichiarazione dal suono non banale: “Per ragioni di trasparenza” e in risposta alle richieste del Congresso, il presidente Trump ha ordinato al Dipartimento di giustizia di declassificare immediatamente “un sacco di materiale” relativo al Russia Probe (come gli americani chiamano l’inchiesta di Mueller).
Si tratta di una decisione spinta, che secondo alcuni osservatori potrebbe essere vista anche come un modo per minare l’indagine e creare problemi al lavoro di Mueller – ma il presidente ha diritto legale sulle declassificazioni sul materiale top secret. Oggetto della decisione sono documenti collegati alla vicenda di Carter Page, ex collaboratore del comitato Trump nel settore esteri, finito nell’indagine per aver mentito su alcuni colloqui tenuti con funzionari russi e altre beghe di carattere più amministrativo (Page è stato condannato).
Ma non solo, perché Trump avrebbe richiesto di rendere pubbliche le trascrizioni dei verbali relativi ad altri protagonisti di primo piano, su tutti James Comey, il direttore dell’Fbi che il presidente ha rimosso dal suo incarico perché stava spingendosi troppo a fondo nell’indagine sulla Russia che lui stesso conduceva; fu la rimozione di Comey a spingere il dipartimento a nominare un consulente speciale per gestire l’indagine.
Dunque, di fatto, Trump ha deciso di pubblicare documenti riservati, anche sensibili, su un’indagine in corso che riguarda la sua presidenza, il suo comitato elettorale, i suoi uomini. Attenzione: rilascio “without redaction” avrebbe prescritto il presidente, ossia senza inserire omissis o editare il testo verbalizzato. I documenti potrebbero contenere di tutto, i sospetti degli investigatori, alcune prove tenute segrete, i metodi investigativi e informazioni su fonti confidenziali – le cui vite “potrebbero essere messe a rischio”, incalza Vox.
Non sfugge che questa decisione arriva – su un monte di materiale così ampio – a pochi giorni di distanza da un altro importante passaggio sul caso: l’ex direttore della campagna elettorale di Trump, Paul Manafort, ha stretto un accordo con Mueller per collaborare. Venerdì scorso, Manafort è diventato il più importante e alto in grado tra gli ex collaboratori di Trump a pentirsi e collaborare con le indagini – prima di lui hanno patteggiato l’ex consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn, l’ex consigliere George Papadopulos e l’ex presidente del comitato elettorale Rick Gates – e questo potrebbe segnare un momento di svolta nel Russiagate (Manafort lo fa anche per ragioni personali, perché nell’ambito dell’inchiesta è finito sotto diverse accuse per reati fiscali riferiti ad anni prima, quando faceva il lobbysta).
Manafort ha ricoperto il suo ruolo durante l’estate 2016, in cui secondo gli investigatori i russi avrebbero avuto contatti con il comitato Trump: è lì che il team legale guidato da Mueller cerca eventuali collusioni, e dunque chi meglio dell’ex direttore della campagna elettorale dell’attuale presidente può raccontare come andarono le cose? Manafort ha messo nero su bianco con il dipartimento di Giustizia di essere pronto a rispondere “completamente, onestamente, esaustivamente e direttamente” a qualsiasi domanda gli sia posta dai procuratori, su ogni genere di questione.
Mueller s’è tenuto per sé la gestione di Manafort, senza delegare niente ai suoi collaboratori: la cura usata per arrivare al patteggiamento di una persona che fino a qualche settimana fa continuava a dire di non voler “tradire” Trump, e l’esperienza finora dimostrata, spiegano che per il procuratore speciale Manafort è una figura chiave.
Davanti a questa situazione, la mossa con cui Trump ha scelto di declassificare tanto materiale che riguarda l’inchiesta assume, più che l’onore della trasparenza, un carattere di contraerea. Forse il presidente spera che dal materiale possa emergere qualcosa in grado di screditare Mueller – magari qualcosa che riguarda il modo con cui l’indagine è condotta, da cavalcare per battere sul punto classico della “caccia alle streghe” e della politicizzazione del caso.
Sia Comey che il suo vice Andrew McCabe, così come Peter Strozk e Lisa Page (ex funzionari dell’Fbi che hanno lavorato all’inchiesta sulla Russia, macchiati di comportamenti apertamente anti-Trump), o Bruce Ohr (funzionario della Giustizia che ha avuto contatti con l’autore di un dossieraggio su Trump), sono soggetti di cui verranno resi pubblici i verbali. Tutti, secondo la ricostruzione di Trump seguita dai media conservatori più aggressivi, sarebbero parte del “deep state“, lo stato profondo che sta macchinando contro la sua presidenza.
Notare che nessuno di questi è più coinvolto nell’inchiesta di Muller da oltre un anno, dunque tutto quello che potrebbe uscire è datato, ma può benissimo essere usato per dare in pasto all’opinione pubblica e creare un terreno sfavorevole per Mueller.