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Trump voleva far assassinare Assad? La tesi in un libro (super controverso)

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I primi giorni di aprile del 2017, il segretario alla Difesa americana, Jim Mattis, esperto, ponderato, intellettuale, generale quattro stelle pieno zeppo di onori e onorificenze e attestazioni di stima globali, ricevette una telefonata dal suo capo, il commander in chief, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. “Uccidiamolo cazzo. Andiamo lì, uccidiamone molti” diceva l’uomo dalla linea rossa della Casa Bianca, secondo le rivelazioni bombastiche contenute in “Fear” di Bob Woodward, il giornalista del Watergate che uscirà in libreria l’11 settembre con quella che si annuncia come un best seller da moltiplicare alla seconda, un altro libro sui retroscena atroci della Casa Bianca, il super chiacchierato “Fire and Fury” di Michael Wolff (al link un’intervista di Francesco Bechis all’autore uscita a febbraio su queste colonne, ndr).

Trump parlava con Mattis di Bashar el Assad, il rais siriano. Guidato da un istinto emotivo dopo le immagini drammatiche dell’attacco chimico governativo di Khan Shaikhoun – non lontano da Idlib, il cuore dell’attuale battaglia assadista contro i ribelli – che avevano commosso tremendamente la sua primogenita Ivanka (fu raccontato così ai tempi da un altro figlio del presidente, Eric Trump). Il presidente voleva tagliare la testa al dittatore di Damasco, andando oltre il “must go” obamamiano – che aveva più che altro valore politico, per il futuro – e stracciando la sua posizione precedente.

Ossia quella secondo cui gli Stati Uniti dovevano restare più lontani possibile dalla crisi siriana, sostenuta anche ultimamente con gli annunci sul ritiro del proprio contingente, e annunciata già pubblicamente durante il secondo dibatto presidenziale contro la contender democratica Hillary Clinton. Era il 10 ottobre 2016, appena un mese prima del voto, e in quell’occasione Trump disse, seguendo una linea russofila: “Non mi piace Assad, ma Assad sta uccidendo l’Isis. La Russia sta uccidendo l’Isis. L’Iran sta uccidendo l’Isis. E questo per via della nostra debole politica estera” (in quegli stessi giorni, il suo candidato, e ora in carica, vice presidente, Mike Pence, disse invece che un’opzione contro obiettivi militari assadisti non era da escludere).

Tornando alla telefonata con Mattis, secondo le informazioni di Woodward (costruite corroborando i dati raccolti da molte fonti, Woodward è un maestro del giornalismo con la G maiuscola), il capo del Pentagono chiuse la conversazione assicurando il presidente che si sarebbe subito messo al lavoro sull’assassinio di Assad, ma poi, una volta messa giù la cornetta, guardò i suoi collaboratori e disse: “Saremo molto più cauti di così, non faremo niente di tutto questo”.

Gli Stati Uniti, insieme a Francia e Regno Unito, organizzarono una rappresaglia lampo: un’operazione contro obiettivi militari, su cui i russi erano stati avvisati in anticipo, che doveva servire solo da monito simbolico perché il presidente siriano non superasse ancora la linea rossa della armi chimiche. Ultimamente Trump ha avvertito nuovamente Assad di potenziali ritorsioni armate se dovesse usare le armi chimiche a Idlib: è l’attualità dell’offensiva partita in questi giorni a rendere ancora più interessanti le rivelazioni di Fear.

Secondo Woodward fu proprio Mattis a convincere Trump su quel genere di azione l’aprile scorso: ma il capo del Pentagono ha smentito tutti i virgolettati attribuitigli, che non sono solo quelli sulla vicenda siriana, ma anche altri in cui definiva Trump un ragazzino di “quinta elementare o prima media” a proposito della sua capacità di comprendere le questioni di sicurezza nazionale e in particolare la situazione nella penisola coreana. Il presidente ha tweettato lo statement del generale, tra i vari messaggi contro Fear.

Il libro di Woodward, al di là delle smentite di rito su fatti specifici, ricostruisce uno spaccato in cui la Casa Bianca è descritta – confermando tanti altri retroscena che escono quotidianamente sui giornali – come un luogo caotico guidato in un modo quanto meno sui generis. Uno dei passaggi più eloquenti è un virgolettato attribuito a John Kelly, altra star dei generali americani incaricato da Trump come capo dello staff. Kelly dice che la Casa Bianca è una “crazytown“: “[Trump] è fuori di testa, è un idiota, non ha nessun senso tentare di convincerlo di qualcosa, ha deragliato (con accezione: ha sbroccato, ndr). Siamo in un manicomio. Non so nemmeno perché siamo qui. È il peggior lavoro che abbiamo mai avuto”.

Kelly è anche quotato chiedere a Gary Cohn, che voleva dimettersi perché a disagio quando il presidente non prese le distanze dai suprematisti bianchi sui fatti di Charlottesville, di resistere, perché anche lui avrebbe voluto “almeno sei volte scrivere una lettera di dimissioni e ficcargliela nel culo [a Trump]”.

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