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Per Trump è l’inizio della fine. La versione di Ian Bremmer

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Impeachment si, impeachment no, questo è il dilemma che da mesi angustia la stampa americana. Ci sono davvero gli estremi per accusare e costringere alle dimissioni il presidente degli Stati Uniti Donald Trump? Fino ad oggi sono sembrate più speculazioni che moniti credibili. La stessa inchiesta del Russiagate non ha preoccupato più di tanto il tycoon: finché Senato e Congresso sono nelle mani dei repubblicani il pericolo è scampato. Peccato che questa certezza potrebbe venire meno alle elezioni di midterm di novembre. I sondaggi prospettano una maggioranza solida dei democratici. Certo, Trump ha fatto la sua fortuna politica smentendo uno ad uno i sondaggi che lo volevano sconfitto nella corsa alle presidenziali. Ma per il voto di novembre sembra aver già gettato (intenzionalmente) la spugna. “Se perderà non sarà colpa sua, ma dei repubblicani” spiega a Formiche.net Ian Bremmer, presidente e fondatore di Eurasia Group e di GZERO Media, editorialista del Time, da aprile in libreria con il suo ultimo bestseller: “Us vs Them: The Failure of Globalism”. Lo abbiamo incontrato nella sua suite a Villa D’Este, dove ha preso parte al Forum The European House Ambrosetti organizzato ogni anno a Cernobbio. Dal balconcino che affaccia sul lago di Como scuote la testa con un sorriso: “Adesso l’impeachment non è più uno scherzo, vi spiego perché”.

Ian Bremmer, l’op-ed del New York Times scritto da un alto funzionario della Casa Bianca deve aver creato un certo imbarazzo a Trump..

È davvero più imbarazzante di quel che succede a Trump tutte le settimane? Non dovremmo dargli tutta questa importanza. La verità è che mentre l’indagine di Mueller va avanti l’amministrazione è costretta a giocare in difesa e ha più difficoltà a vincere la narrazione mediatica.

È un trend che si riflette nei sondaggi?

La popolarità di Trump rimane piuttosto solida, continua a oscillare fra il 38% e il 42%. Ma il numero di persone disposte a supportare incondizionatamente il presidente comincia a diminuire, forse perfino a dimezzarsi. I democratici odiano a morte Trump, e questo avrà un impatto sulle elezioni di midterm, dove è sempre difficile convincere le persone ad uscire di casa per andare a votare e per farlo serve una narrazione forte.

Un pronostico per le midterm di novembre?

I democratici vinceranno al Congresso con un buon margine. Trump è al corrente del pericolo, per questo non vuole fare il giro del Paese urlando: “votate i repubblicani!”. Non ha alcuna intenzione di prendersi la responsabilità di una sconfitta. Direi che per il momento ci sta riuscendo. Il caso Russiagate e l’editoriale dell’insider sul New York Times imbarazzano molto più i repubblicani del presidente.

I repubblicani sono ancora con Trump?

Non hanno altra scelta, da soli sono ancora più vulnerabili. Non esiste un Partito Repubblicano senza Trump, il suo resta ancora il volto più popolare.

Cosa le fa credere che la luna di miele con il presidente possa continuare?

I repubblicani lo hanno supportato approvando un budget di spesa abnorme, venendo meno a un taboo tipicamente repubblicano. Ma ci sono tanti altri dossier su cui Trump e repubblicani sono ancora sulla stessa lunghezza d’onda. La deregolamentazione, le politiche della Fed, la riforma fiscale. Il partito dell’elefantino in questo momento è ancora nelle mani di Trump. E l’indifferenza del presidente per il responso delle urne a novembre sta mettendo in seria difficoltà i candidati.

Che effetto avrà il rapporto di Robert Mueller sul voto?

Non credo che il rapporto sarà pubblicato prima delle elezioni. L’indagine sta andando a gonfie vele ma ci sono ancora molte persone con cui Mueller deve parlare. Non ha ancora incontrato Roger Stone, Carter Page, gli stessi figli di Trump. Una volta che il rapporto sarà pubblicato, non c’è dubbio, costituirà un problema serio per il presidente. E se i democratici vinceranno le elezioni si aprirà seriamente la possibilità di un impeachment.

L’impatto della guerra commerciale con la Cina preoccupa gli agricoltori americani?

Non c’è nessuna guerra commerciale, solo tanta retorica. Trump l’ha usata per poter operare ai margini, minacciare e poi all’ultimo fare un passo indietro. Lo ha fatto con gli argentini, con i messicani, con i sudcoreani e in qualche modo anche con gli europei. E in fondo anche con la Cina. Basta dare uno sguardo ai mercati: se ci fosse una guerra commerciale i mercati porterebbero giù gli Stati Uniti, e non sta succedendo.

Guardiamo per un attimo al bicchiere mezzo pieno: la politica estera. L’accordo con Kim Jong-un è un successo per la Casa Bianca?

È indubbio che Trump abbia fatto progressi con la Corea del Nord. Non ci sono più esercitazioni nucleari in corso né test missilistici. Ci hanno restituito, o almeno questo è quello che crediamo, i resti di 54 soldati. Questo non vuol dire che Pyongyang abbia avviato il processo di denuclearizzazione, non succederà mai.

Perché è così pessimista?

Perché Trump sottovaluta un problema: i cinesi esercitano su Kim un’influenza molto maggiore di quella che può vantare Washington. Se l’amministrazione americana non troverà il modo di migliorare le relazioni bilaterali con la Cina le chances di controllare il dossier nordcoreano resteranno pari a zero.

Vale lo stesso per il Jcpoa iraniano?

Il caso dell’accordo sul nucleare iraniano è diverso. Gli Stati Uniti lì hanno tutte le carte in mano. Chiunque faccia affari con l’Iran rischia di finire nel mirino delle sanzioni secondarie americane, Cina compresa.

C’è chi osserva che da quando Trump è entrato nello Studio Ovale la Cina ha considerevolmente esteso il suo raggio di influenza in Asia. È così?

Gli Stati Uniti contano ancora molto in Asia e sono ancora motivo di preoccupazione per Pechino. L’ultima cosa che i cinesi desiderano ora è uno scontro diretto con gli americani. È vero però che l’unilateralismo americano sta spianando la strada alla Belt and Road Initiative in Asia, con cui i cinesi stanno investendo miliardi di dollari nelle infrastrutture di Paesi alleati con gli Stati Uniti, non senza esercitare una certa influenza sul sistema politico.

È un fenomeno che tocca anche il Vecchio Continente?

Si tratta di un piano che sta avendo successo soprattutto sulle economie emergenti, meno in Europa. Francia e Germania sono molto scettiche sulla Via della Seta cinese, specie per quanto concerne gli investimenti nel settore tecnologico. L’Italia lo è di meno perché in questo momento ha bisogno di amici.

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